The Project Gutenberg eBook of Olocausto

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Title: Olocausto

Author: Alfredo Oriani

Release date: November 29, 2008 [eBook #27358]
Most recently updated: January 4, 2021

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK OLOCAUSTO ***

Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara

Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)

OPERE DI ALFREDO ORIANI

V
OLOCAUSTO

ALFREDO ORIANI

OLOCAUSTO

ROMANZO

BARI

GIUS. LATERZA & FIGLI

TIPOGRAFI—EDITORI—LIBRAI

1918

PROPRIETÀ LETTERARIA

Riservati tutti i diritti

NOVEMBRE MCMXVIII—50279

LA PRIMA GIORNATA

Egli uscì a testa alta, col volto lucido di quel sorriso, che sembra illuminarsi dall'interna contentezza di un buon pranzo.

Aveva mangiato copiosamente, solo ad un tavolino dell'ampia sala bislunga, nella quale gli avventori rumoreggiavano, e i camerieri in giacchetta nera e cravatta bianca mutavano correndo i piatti sporchi coi piatti pieni, fra l'incrociarsi degli ordini e il vocìo saliente delle conversazioni. Parecchie donne della piccola borghesia pranzavano in cappellino, colle mantiglie ripiegate sul dossale delle sedie, perchè gli attaccapanni delle pareti erano già carichi di pastrani e di cappelli maschili; ma nessuna era bella, e tutte avevano nell'atteggiamento quel ritegno nervoso, che tradisce nel suo stesso disagio la brama di attirare l'attenzione. Da alcuni tavoli affollati di studenti il chiasso si allargava come un'onda, facendo spesso rivolgere le teste con atto fra furioso e scontento di tale trivialità non abbastanza giustificata dal buon mercato del luogo e dalla eccellente riputazione del suo vino.

Infatti il Chianti, che vi si beveva, senza essere degno del proprio nome, era assai migliore di quello che ormai ha degradato nel giudizio dei più il famoso vino di Broglio, ultimo orgoglio del grande barone, egli stesso ultima originale figura della aristocrazia toscana.

La sala era illuminata a luce elettrica da vecchi bracci dorati, nei quali le vaschette del gas avevano ceduto il posto alle diafane pere dal rameo stelo attorcigliato e rosso dentro un candore abbacinante: nell'aria satura di odori grassi un calore cresceva a colorare le facce, accendendo tratto tratto nel fondo degli occhi qualche fiammella.

Egli aveva pranzato fra due tavole occupate da due gruppi abbastanza diversi: a sinistra sei o sette studenti ineleganti ed affamati, villani ed allegri; si vedeva che quel loro magro pranzo di pensione non bastava a tutte le cupidigie dello stomaco giovanile, indarno distratto dal baccano dei discorsi. Certe parole, alcune arie improvvise tradivano un dispetto nell'urto di una qualche difficoltà prevista forse, ma non per questo meno pungente; i coltelli tagliavano le pietanze a pezzetti troppo piccoli, e le pagnottelle sparivano dalla tovaglia con una celerità quasi prestigiosa. Li serviva un vecchio cameriere, lento, bonario, che si piegava sempre con lo stesso sorriso ad ascoltare tutte le domande pei baratti o le porzioni divise fra due o tre studenti, nei quali l'appetito più facilmente ammorzava le pretese della vanità; poi se ne andava traballando con una pila di piatti sulle mani.

All'altro lato si allargava una intera famiglia di provinciali dalle vesti e le mosse sgraziate, ma con quel contegno sicuro della gente ricca, che sa di poter essere a posto dovunque. Lo si capiva specialmente dal viso della madre, una donna secca e giallognola dentro un abito scuro, la quale discorreva col cameriere, un giovanotto biondo, come se avesse già sovra di lui una certa autorità, mentre il marito, più vecchio, grasso e rosso, si preoccupava dei due figli più piccoli per farli mangiare decentemente. Tre ragazze vestite allo stesso modo, di una stoffa sanguigna, tenevano tutto un lato della tavola, guardando nella sala con una curiosità beata e maliziosa; ed erano tutte tre brune, così simiglianti nelle facce rotonde che parevano tre ritratti della stessa persona a non molta distanza di tempo.

Gli studenti, appena notato quel gruppo, avevano subito colla provocatrice iattanza della giovinezza alzato il tono della conversazione, già abbastanza scabra secondo il solito, e le ragazze, incapaci di resistere alla tentazione di voltarsi, ascoltavano coll'aria di parlare fra loro, nascondendo a stento fra le pieghe della bocca un sorriso involontario a certe più vive scappate.

Anch'egli se n'era accorto.

Era un sensale di molte cose, da grano e da vino, da seta e da legna, che gli affari traevano spesso a Firenze per mezza giornata: aveva una statura troppo alta, un corpo allampanato, e nel viso storto due piccoli occhi castani, dentro i quali si accendeva di quando in quando un barlume d'intelligenza. Al vestito, ai modi, gli s'indovinava un'intenzione di eleganza ancora mal sicura ma non senza qualche amabilità; e siccome guadagnava abbastanza e sapeva spendere con una certa giustezza, il suo aspetto poteva in alcuni luoghi, fra gente non troppo fina, ottenergli quel primo involontario rispetto per le persone, che sanno far sentire con garbo la propria superiorità. Così durante il pranzo, pur divertendosi alle intemperanze degli studenti eccitati dal contegno delle tre ragazze e da alcuni trasalimenti nervosi della mamma, aveva abbastanza bene simulato l'indulgente disattenzione di un uomo meglio abituato, non senza provarne in fondo al cuore una vera contentezza di orgoglio. Quegli studenti, nati forse da famiglie più alte della sua e passati oramai per tutta la filiera delle scuole, non apparivano nè più intelligenti, nè gran cosa più signorili di lui; fors'anco i loro studi non li condurrebbero mai all'agiatezza raggiunta da lui in pochi anni.

Infatti la sua giovinezza non superava la loro. Egli toccava forse i ventiquattro anni, ma aveva già corsa tutta l'Italia, passata la frontiera austriaca, parlava non troppo male il francese, era in relazione con molti milionari, poteva citare grossi nomi e grosse cifre con quella trascuranza che stupisce sempre la gente estranea al commercio, e per la quale il danaro non sa scompagnarsi mai da un senso di pena per la difficoltà di guadagnarlo. Quindi aveva largheggiato con se stesso nel pranzo, chiudendolo col caffè, il cognac e un pacco di sigarette: poi, ripreso dalla tovaglia il giornale, lo scorreva distrattamente colla schiena appoggiata al dossale della sedia e la testa arrovesciata sotto il fumo lieve della sigaretta.

Qualcuno lo guardava, le tre ragazze avevano barattato su lui qualche parola.

Poco dopo trasse dal taschino un grosso orologio d'oro e parve consultarlo lungamente; erano le sette e mezzo, il treno per Bologna non partiva che a mezzanotte. Avrebbe potuto, volendo, passare quella notte a Firenze invece di ritornare a Forlì, ma non ne aveva alcun motivo; nel mattino gli era riuscito di vendere cinquecento quintali di grano, comprati da lui stesso a Faenza, e sui quali guadagnava novanta centesimi al quintale. La sua giornata era stata perciò delle migliori; poi nel pomeriggio un grosso mugnaio di Marradi gli aveva parlato di una transazione per una vecchia lite ferroviaria, chiedendo quasi consiglio. Egli s'era offerto senza sapere ancora come la cosa fosse davvero, per il piacere della vanità solleticata dall'importanza di una simile trattativa.

—Che dote avranno queste ragazze?—pensava esaminandole:—Talvolta le provinciali così mal vestite sono più ricche di molte donnine eleganti, che s'incontrano per via Calzaioli, e soprattutto hanno minori esigenze. La loro dote tocca davvero al marito, che non essendo uno sciocco può trarne una fortuna.

Il suo pensiero ondeggiò su questo problema, mentre gli occhi gli correvano per tutta la sala luminosa e rumoreggiante. Notò che nessuna persona veramente distinta vi si trovava: forse egli era il più elegante, capitato per un buon caso a quel tavolo vuoto, ove era stato servito meglio degli altri.

Perchè vi restava ancora?

Il pranzo eccellente non gli era costato che tre lire, tutto compreso: bisognava uscire, trovare un modo, un piacere, per ingannare il tempo sino all'ora del treno.

Quando si alzò, la sua alta statura e il lungo pastrano, che il cameriere troppo piccolo stentava a porgli sulle spalle, attirarono l'attenzione della sala; passò dritto, a testa alta fra le occhiate, sentendovisi quasi crescere, ma già preso da un vago bisogno di essere con qualcuno.

Fuori l'aria si era fatta rigida, benchè l'inverno fosse oramai trascorso. Via Calzaioli si affollava di gente sotto la viva luce dei fanali, fra quel chiacchierio delle ore serali, che pare fatto di prime confidenze nella tregua del lavoro quotidiano. Gli uomini camminavano adagio, le donne avevano un indefinibile languore nel passo, dalle vetrine uscivano barbagli, molte finestre erano illuminate, qualche fiacre correva al piccolo trotto, mentre alcune cacciatrici notturne, già scese nelle strade, passavano negli abiti vistosi, col volto vivido di vernice e gli occhi troppo aperti, che guardavano in faccia agli uomini con una insistenza interrogatrice.

Ma nessuna lo tentò.

In quella strada, fra quella gente, a quell'ora, esse non erano che una miseria, alla quale poteva solamente arrestarsi qualcuno di coloro, che essendo troppo soli hanno troppa fretta; egli invece avrebbe potuto facilmente imbattersi in qualche amico di affari, e stava benissimo.

Preferiva di andare al caffè. Ma l'onda lenta della folla lo prese senza che quasi se ne accorgesse, trascinandolo per quella vecchia strada illustre, della quale sapeva a memoria tutte le ditte. Nel cielo scuro le stelle brillavano lontanamente, l'aria frizzante tratto tratto gli pizzicava il viso con una carezza, che gli scendeva fin dentro a destare qualche brivido nel caldo del pesante pastrano e fra i tenui odori femminili vaganti. Alcune teste di donne sorgevano come apparizioni tra la folla: capelli bruni dorati, guance bianche, illuminate da un sorriso; e bagliori uscivano dagli occhi, dietro le labbra dai denti candidi, mentre le teste si piegavano mollemente e un fremito pareva correre lungo le mantiglie, giù per le gonne, sino al selciato. La notte non era ancora di primavera, ma qualcuna delle sue inquietudini passava nell'aria come un soffio. Egli notò che nella luce di quell'ora i vecchi parevano più vecchi e i fanciulli camminavano dando la mano ai parenti con insolita gravità. Evidentemente quasi tutta la folla si trovava nella sua condizione, in quel tiepido benessere del dopo pranzo quando si obliano le cure e si sta per chiedere un qualche piacere alla notte. La gente girellava senza un motivo preciso: fra poco la maggior parte si sarebbe decisa per i clubs o per i caffè, per i teatri o altri ritrovi, a riprendere la solita vita notturna più breve, più vacua, ma più acuta forse che quella stessa del giorno. Soltanto le piccole famiglie, troppo povere per concedersi altri svaghi dopo quello della strada, rientrerebbero presto nelle case per andare a letto, portandovi inconsciamente l'acredine tentatrice di qualche visione balenata fra la moltitudine e dileguata quasi al disopra di essa, dentro l'ombra di una grande carrozza.

Egli girava a caso. Involontariamente la sua giovinezza lo faceva seguire per qualche tratto una figurina di donna, svelta ed elegante, che fendeva la folla senza vederla, al braccio di un signore; ed era come una pagina di romanzo, che gli si aprisse improvvisamente dinanzi agli occhi coll'irresistibile prestigio dell'amore. Altre donne non guardava. Come quasi tutti i giovani, che nati poveri dovettero subito lottare per il pane della vita, egli sentiva adesso con una acutezza più dolorosa l'invidia contro le classi superiori, alle quali il lavoro e la fortuna avevano potuto avvicinarlo senza ottenergli mai la più piccola dimestichezza con una signora, perchè davanti a qualunque di esse perdeva anche la poca disinvoltura imparata negli affari. E se ne rodeva intimamente.

Una malinconia lo vinceva a poco a poco.

Da via Calzaioli errò per altre strade, trovandosi finalmente in Lungarno. Il fiume non aveva un murmure, nella notte non passava un alito. Egli non era abbastanza colto per sognare dinanzi ai vecchi ponti, che cavalcavano il fiume, mentre dal fondo della tenebra i colli lontani si alzavano in un'ombra più densa, giacchè sapendo antica la vera bellezza della città non aveva mai avuta la tentazione di comprare una guida e preferiva le vie moderne, larghe e bianche nella lindura della nuova ricchezza.

Lungarno era deserto.

Addossato al parapetto per accendere meglio un sigaro, vide le stelle tremolare dentro l'acqua del fiume a una grande profondità: poi l'orologio di una chiesa battè le otto e mezzo.

—Che cosa faccio qui?—si chiese improvvisamente.

Rifece i conti della giornata e di tutto quel mese: gli affari erano andati bene, non si rimproverava che di aver perduto centocinquanta lire al macao nel club di Forlì, secondo lui nel modo più sciocco, quando la partita stava per finire. Ciò gli accadeva qualche volta, perchè sentiva di avere il vizio del gioco, pur lottando abbastanza sicuramente contro di esso: ma quando si lasciava prendere, era sempre quella stessa vanità a spingerlo.

—Vale meglio buttarli con una donna! Se ne buttano meno e se ne sa meglio il perchè.

Un gruppo di signori forestieri usciva a piedi da un grande albergo nella sera fresca. Egli s'incamminò dietro loro per rientrare nelle strade più affollate ad affogarvi in qualche modo quelle tre ore, che gli restavano. Adesso il sangue gli ferveva. Una di quelle signore al braccio di un vecchio alto, dai favoriti bianchi, era di un biondo lucente anche nella notte, ma invece di un mantello indossava una giacca chiara, sotto la quale si sentiva tutta la molle eleganza della sua figura slanciata e sottile. Non sapendo una parola d'inglese egli poteva più facilmente fantasticare sulle loro orme: quindi seguì il gruppo a breve distanza, ma un signore si voltò, ed egli credette allora di aver commesso una imprudenza nell'avvicinarsi; poi vide la dama bionda rivolgersi sotto un fanale: era bella, benchè la distanza non gli permettesse di cogliere davvero i suoi lineamenti.

—Chissà quanti milioni ha quella gente, che per stravaganza si diverte questa sera ad uscire come me a piedi per le strade! Eppure vi sono signori italiani, che diventano gli amanti di quelle signore inglesi, delle quali il lusso supera perfino quello delle parigine; ma ciò non accade mai a Forlì o in altra delle nostre città di Romagna. Bisogna nascere a Firenze, a Roma, essere educato davvero come lo sono essi, per giungere a tali fortune. Invece io sono uguale a tutti i signori del mio paese, io figlio di un oste. Nessuno di loro sa condursi meglio di me o gettare più indifferentemente cento lire.

—Signore,—lo riscosse una voce.

Era di donna, col volto mezzo nascosto da un fazzolettone nero, che le sporgeva dalla fronte: non si vedeva dentro che una pallidezza bianca, e la figura stava curva.

Egli si arrestò.

—Signore, vuole venire con me?

L'accento e la voce erano umili: subito egli credette di aver compreso.

—Sentiamo: dove?

—Non molto lontano.

—Ma chi avete?

—Una ragazza.

Le sillabe le tremavano leggermente senza che egli se n'accorgesse. La volgarità dell'avventura aveva ridestato in lui tutti gl'istinti e le abitudini diffidenti del mestiere, mentre un orgasmo gli cresceva dentro, e per la strada deserta, punteggiata sino lontano dai fanali, l'ombra silenziosa metteva come un mistero.

—Ma voi chi siete?

—Sono della casa. Venga.

La donna fece un passo avanti. Adesso osservò che la sua figura era alta, benchè le spalle le si curvassero troppo facendole tenere la testa bassa: non aveva potuto vederla in viso, ma gli era sembrato di notare un gran naso sottile in quella pallidezza, che il fazzoletto chiudeva come in una cupa cornice. E la sua voce aveva strane intonazioni: egli ne rimaneva perplesso.

La raggiunse.

—Dove andate?

—A casa.

Una domanda bizzarra gli salì alle labbra, perchè sentiva confusamente che in quell'incontro era qualche cosa d'insolito, che lo rendeva diverso dagli altri di tutte le sere lungo certe strade, quando la gente comincia a diradarsi.

—Perchè avete fermato me? State lontano?

—Non molto: venga.

—La ragazza è bella?

—Sì.

Egli tornava a dubitare: questa volta si pose davanti alla donna:

—Mi condurrete invece da qualche brutta sgualdrina: per solito accade così. Se la ragazza fosse bella, come dite, non cerchereste per lei qualcuno nella strada, a quest'ora.

—È la prima volta.

—Via!

L'altra parve non badasse all'accento di quell'esclamazione.

—Lei è forestiero, ecco perchè.

—Come lo sapete?

—Me ne sono subito accorta al modo come ella andava guardando per la strada: poi alla pronunzia. Lei deve essere bolognese.

—Quasi,—ribattè sorridendo:

—Ebbene, andiamo.

Passarono il ponte Santa Trinità, ma appena nell'altro Lungarno egli si riaccostò vivamente alla donna. Non poteva capire perchè volesse precederlo invece di accompagnarsi con lui per vantare al solito le bellezze della ragazza. L'aria misteriosa della donna, le sue parole, il suo accento soprattutto, lo facevano dubitare di qualche cosa, che non sapeva indovinare.

—Perchè andate così in fretta? Io ho tempo, non parto che a mezzanotte.
Parliamo.

—Che cosa vuole?—chiese umilmente.

—È proprio la prima volta?—egli ridimandò colla stessa intonazione sardonica.

—Ella non lo crede: ho capito. Andavo innanzi io perchè potremmo incontrare qualcuno che mi conosca. Veda: nella nostra casa sono tutte persone per bene; bisognerebbe che nessuno si accorgesse della sua visita, anche per la povera Tina.

—Si chiama Tina?

—Sì: mi permetta di andare innanzi, mi fermerò in faccia all'uscio, lo lascerò aperto ed ella salirà. Solamente la prego di non fare rumore, siamo povera gente.

La strada era anche più deserta, non incontrarono che un gruppo di operai uscenti da una bettola: qualcuno di essi parve sospettare di quei due, che si pedinavano alla distanza appena di dieci passi, e allora egli si rattenne per riaccendere il sigaro. Le ultime spiegazioni della donna, quantunque così oscure, lo avevano mutato. La sua giovinezza non ancora abbastanza corrotta si ricordò confusamente di drammi visti o letti, nei quali una vera miseria travolgeva alla catastrofe altre donne ed altri uomini senza che ne avessero colpa; ed era un mistero antico, un modo continuo della vita, al quale si assiste sempre nella stessa impossibilità di esercitarvi una qualunque influenza. Ma se ne resta scontenti, anche quando si evitano i contraccolpi del danno; talora invece se ne profitta, e dapprima se ne ride, poi non molto tardi si finisce col provarne un vago rimorso.

Però questo non era in lui che un ondeggiamento oscuro, mentre sotto il pastrano il caldo gli cresceva con quel passo più sollecito e nel sangue giovane gli correvano nuovi fremiti. Fumava gittando in alto le boccate del fumo.

Svoltarono per un vicolo stretto e tortuoso: poco dopo ella si fermò ad una casetta.

—Vada piano, mi raccomando, non accenda fiammiferi,—gli disse dietro l'uscio appena fu entrato.

Le scale erano anguste e brevi: egli ne contò sei rami, poi all'ultimo pianerottolo la donna sospinse una porta, rinchiuse, ed accese un zolfanello. La stanzetta apparve nuda. Era la cucina, a giudicare dal camino largo e basso, ma non vi rimaneva che un tavolo nel mezzo, un canapè sgangherato in una parete, e un altro mobile indefinibile, una specie di canterano, dentro al quale stavano forse le ultime stoviglie.

Egli osservò subito che tutte le sedie erano spagliate.

—Si accomodi,—disse la donna a bassa voce, quasi tremando.

Ma egli restava nel mezzo, impacciato.

Quella miseria lo agghiacciava. La stanza non era sucida, anzi ai muri vi si vedeva ancora una carta chiara, a fiorellini oscuri, che le avrebbe data un'aria di lindura; ma le tende mancavano, e così vuota pareva anche più grande. Evidentemente si trattava di una di quelle miserie cittadine, pulite e guardinghe, che si nascondono lungamente, arrivando nel silenzio di tutti gli abbandoni alle più inverosimili estremità. Sulla tavola, dentro un candeliere di ottone dal piede slabbrato, bruciava una mezza candela sottile di stearica accanto ad un bicchiere d'acqua; il secchio in ferro bianco era rimasto sul focolare.

La donna si trasse di testa il fazzoletto.

Adesso appariva rossa, ma di un rossore fugace e violento. Aveva infatti quel gran naso, che a lui era parso di notare nella strada: era secca e scarna, colle guance infossate perchè le mancavano molti denti, gli occhi chiari e luminosi. Il suo aspetto non era senza una certa signorilità; aveva gettato con gesto nervoso il fazzoletto sulla spalliera del canapè, poi era tornata addietro per assicurarsi di avere ben chiusa la porta del pianerottolo.

Disse:

—Scusi, mi pare di averle già confessato che siamo povera gente: si accomodi,… ecco la sedia migliore,—aggiunse con un sorriso stentato:—se non fosse così, non si farebbero certe cose.

—Ebbene, dov'è la ragazza?—l'altro chiese impaziente per sottrarsi al senso penoso, che gli veniva da tutti quei particolari.

—Vado.

Ma non andava.

Egli si era sbottonato il pastrano sedendosi al tavolo, e guardava il bicchiere d'acqua; la donna se ne accorse e lo portò sul camino.

—Lei non parte che a mezzanotte per Bologna?—domandò ancora; ma pareva parlare solamente per guadagnare tempo.

—Sì: ma che fate qui? Perchè non avvisate la ragazza?

—Vado.

Una nube le oscurò la fronte, ed ella vi passò una mano tremante: l'altro invece aveva abbassato la testa per guardare l'orologio.

Poco dopo intese un lungo guaito infantile dal pianerottolo, sul quale dava senza dubbio un altro appartamento. Era un pianto di creaturina spaventata e disperata, che scoppiava in impeti violenti come se qualcuno tentasse di soffocarle tratto tratto i singhiozzi. Egli si alzò, malcontento di essere capitato in una simile casa, mentre aveva pranzato così bene e gli sarebbe stato facile procurarsi altrove qualche distrazione veramente piacevole.

Ma la porta si aperse.

—Che cosa è?—egli proruppe di malumore, vedendo ricomparire quella donna sola:—Vi sono anche dei bambini, che piangono, in questa casa? Non udite?

—Pur troppo, signore; è la bambinella della signora Veronica. Poverina! è ammalata di scrofola, e adesso il male le è entrato nell'orecchio; a certi momenti urla dallo spasimo.

—Non la curano dunque?

L'altra ripetè lo stesso sorriso.

—Anche quella madre è senza mezzi: dovrà forse vedersela morire innanzi così.

Ma la bambina si quietò.

Egli si era rimesso il cappello, quindi la donna temette che volesse andarsene.

—Vuole che l'aiuti a cavarsi il pastrano? A momenti Tina verrà: abbia un po' di pazienza.

Egli invece se lo trasse da solo con atto impaziente, e l'altra rientrò ancora da quella stessa porta in una camera buia. Probabilmente la ragazza era là.

Passarono altri cinque minuti. Egli non sapeva più che pensare nella stranezza di un tale caso, che gli aveva già turbato quel benessere dopo il pranzo, traendolo con una imprevedibile novità di sensazioni ad una confusa tristezza. Nato e vissuto troppo lungamente vicino alla miseria per non riconoscerla ovunque, al primo sguardo, non aveva più per essa che la ripugnanza di coloro riusciti finalmente a farsi strada più in alto. Anzi la recente agiatezza gli metteva nel legittimo orgoglio della vittoria un profondo disprezzo pei poveri incapaci di reagire contro la propria condizione sino a trionfarne in un modo o nell'altro. Perchè restare povero? Gli pareva che, volendo, si potesse sempre arrivare ad uno stato tollerabile.

—Adesso,—pensava,—preparano la scena. Eppure vi è qualche cosa di ben triste nel volto di quella donna non ancora vecchia! Chi è? chi sarà la ragazza? Quella donna non nacque così come si trova ora, ma nelle grandi città i casi e gl'inganni sono talmente complicati che bisogna aspettarsi a tutto. Se tenteranno una commedia me ne accorgerò.

La porta si riaperse: riapparve quella donna traendone per mano un'altra, che tenea la testa anche più bassa. Egli scattò dalla sedia.

La ragazza indossava una vecchia giacchetta a maniche larghe e rigonfie verso le spalle, con grandi risvolti, che avrebbero dovuto scoprirle il collo e la sommità del seno se non avesse tenuto il volto così basso; una gonna corta e miserabile le cadeva su due scarpe vecchie, ma i capelli castani, folti, scarduffati, le si alzavano come in nuvola sulla fronte bianca di un candore impressionante. S'indovinava la sua emozione dal tremito del braccio, che stringeva febbrilmente la mano dell'altra donna.

Questa si fermò, le diede una scossa liberandosi, e tornò indietro in quella camera buia senza parlare.

La porta si chiuse quasi violentemente.

La ragazza alzò la faccia.

Alla fiammella tremula della candela egli vide sotto quella fronte troppo bianca due occhi di un cilestro pallido, e una bocca piccola come stirata da uno spasimo nervoso; però il volto bello, di una delicatezza malaticcia, era fresco malgrado i cerchi bluastri, che rendevano più vivo lo splendore dello sguardo.

La giacchetta mal chiusa scopriva sotto il collo una bianchezza.

Egli non sapeva come incominciare.

—Accomodatevi qui, vicino a me.

L'altra ubbidì piegando nuovamente la testa.

Non poteva trattarsi di commedia: il volto della ragazza era così bello e così triste che altri meno giovani di lui se ne sarebbero egualmente commossi; e nulla in lei, dall'aspetto o dall'atteggiamento, tradiva una intenzione seduttrice, quel sottile, continuo inganno femminile, che non cessa mai, nemmeno nelle crisi più profonde della passione. Ma una dolcezza emanava dalla sua figura così ripiegata sulla seggiola, mentre dietro la nuca le si arruffava una quantità di ricciolini, che il soffio più insensibile avrebbe scomposto. Teneva le spalle un po' arcate e sotto le pieghe di quella giacchetta male abbottonata, dalle costure logore, il suo corpicino primaverile appariva in una forma indecisa.

Egli le guardò le mani sottili, distese sulle ginocchia con quella compostezza delle fanciulle quando seggono in chiesa.

—Ti chiami Tina?—incominciò prendendole una mano.

—Sì.

—Me lo ha detto quella donna: chi è?

—Mia madre.

E alzò la faccia: allora egli credette di capire che quegli occhi avevano pianto.

—Tua madre,—ripetè:—ma scusa, quanti anni hai?

Interrogava così a caso, tanto per parlare.

—Non ancora diciassette anni.

—Ti chiami Tina: hai fratelli?

—No.

—Il babbo?

—No.

—Solo la mamma?

—La mamma.

—E ti…

Ma non finì: adesso era lui, che sentiva un impeto quasi di collera salire dal sangue, però si trattenne guardandola fisamente. La faccia della fanciulla si era irrigidita in un pallore di marmo, e dietro i denti l'ombra della sua bocca socchiusa pareva palpitare.

Poi appoggiò un gomito sopra la tavola e la fronte sulla mano.

—Sei bella davvero!—esclamò improvvisamente.

Ma siccome l'altra taceva, proseguì:

—Hai detto la verità. Si vede subito che hai sedici anni, non puoi averne altri. Ti chiami Tina? È un bel nome, nel mio paese non conosco nessuna ragazza che si chiami così. È un nome fiorentino?

—Sì.

—Ma tu farai pure qualche cosa? Come vivete in questa casa?

—La mamma è stata ammalata tutto l'inverno, io andavo da una bustaia, ma ho dovuto smettere per curare la mamma.

—Il babbo?

—Non l'ho mai conosciuto.

—Ma la mamma che cosa faceva prima di ammalarsi?

—Andava in due o tre case a prestare mezzo servizio per non lasciare me.

—E prima?

—È stata quasi ricca, poi vennero le disgrazie: adesso non può fare più nulla, è troppo debole.

—Dovresti fare tu quei mezzi servizi, insomma la mezza serva invece di lei.

—Me non prenderebbero, sono troppo giovane.

—Come serva forse, ma per bambini.

Parlava duro, da uomo d'affari, colla precisione e la rapidità del colpo d'occhio nel mestiere.

—Dovrei abbandonare la mamma.

—E allora?…

Le teneva sempre quella mano fra le proprie, senza trarne una vibrazione. La fanciulla aveva risposto esattamente a quella specie d'interrogatorio, ma il suo viso rimaneva sempre immobile, nella stessa rigidezza lapidea, dentro la quale gli occhi brillavano come in una lontananza di notte azzurra.

—Non mi hai ancora guardato,—egli ricominciò dopo una pausa, accarezzandole la mano:—capisco che io non ti posso interessare, perchè non mi conosci. Hai l'amante?

La fanciulla titubò.

—No.

—Davvero, Tina? Mi pare difficile: che cosa fai dunque tutto il giorno?

—In due mesi sarò uscita di casa due volte, per un momento.

—Ma bisogna pur vivere.

—Abbiamo venduto a poco a poco tutto quello che avevamo.

—Nessuno vi ha aiutate?

—In principio sì, adesso più.

—Pare impossibile che si possa arrivare a questo: però qualche idea l'avrai.

Questa volta ella si strinse nelle spalle, e un sorriso dolente le ricomparve sulla bocca arida, parve cercare qualche cosa sulla tavola. L'altro indovinò.

—Vuoi il bicchiere dell'acqua? La mamma l'ha messo sul camino quando sono entrato io.

Si alzò per porgerglielo, la fanciulla lo respinse.

—Mi farebbe male.

—L'acqua! Perchè?

—Anche oggi ho voluto berne e dopo l'ho rigettata.

—Che cosa ti senti?

—Nulla.

—Avrai mangiato qualche cosa d'indigesto: che cosa hai mangiato?

—Nulla.

—Nulla, che cosa? Si mangia pure: da quando hai mangiato?

—Ieri mattina.

—E dopo?

Non rispose. L'altro si alzò nervosamente dinanzi a questa fanciulla, che lo dominava colla propria indifferenza, parlando a monosillabi come dentro a un sogno. Non pareva accorgersi di essere sola con lui in quella camera, sebbene fossero bastati pochi minuti per farle confessare tutta la vita.

—Chiama tua madre perchè vada fuori a comprare quello che vuoi, pago io. Che cosa ti piace? A quest'ora le botteghe sono ancora aperte.

—Adesso no, non potrei mangiare.

—Ma nemmeno lei, tua madre, ha mangiato?

—Più tardi, più tardi,—ella concluse stringendo le palpebre per frenare le lagrime, che le ricominciavano, e rialzò la testa con atto quasi violento. Erano gli ultimi guizzi, forse le ultime resistenze della sua volontà, mentre un'improvvisa paura le gelava il sangue, spegnendole quella luce lontana negli occhi.

Avevano già parlato troppo: a che scopo? Se ne accorgevano entrambi. Sullo stoppino della candela una larga bracia lasciava salire un tremulo filo di fumo turchiniccio: nella stanza l'aria pareva diventata fredda.

Il loro silenzio si allungava sotto la pressione di uno sforzo sempre più greve. Egli la guardò fisso facendola trasalire come ad una puntura: il seno le ansava, e sul pallore marmoreo della faccia parve ondeggiarle un brivido luminoso. Si sentiva sempre la mano stretta fra le sue con una violenza quasi dolorosa, mentre egli si agitava sulla scranna col volto mutato da una nuova fisonomia. Improvvisamente, colla testa pesante per quel digiuno di quasi due giorni, la fanciulla non seppe più pensare, come sotto una di quelle sensazioni di sonno così soverchianti nei bambini; un freddo le stringeva lo stomaco e un torpore le saliva simile ad un'ombra sino agli occhi. Poi le sembrò di vedere la luce della candela avvampare in un incendio, che subito si spegnesse.

Egli le aveva messo una mano sul collo scendendo ad accarezzarlo sotto il bavero della giacca, e col volto quasi sul volto glielo bruciava coll'alito.

—Dammi un bacio.

Ella glielo diede.

—Vieni,—proruppe con voce sorda, traendosela sulle ginocchia e perdendosele nel viso, nel collo.—La mamma te lo avrà detto; sei contenta, non è vero? Lo sai che sei bella? Dammi un altro bacio: sì, sei bella, il tuo aspetto è un incanto!—esclamò finendo colla mano convulsa di sbottonarle la giacca: ma si arrestò.

—Ah! non hai nemmeno la camicia, hai solo un corsetto.

Ella si rannicchiò dolorosamente ascoltando come una chiamata i guaiti della bambina, che ricominciava a piangere. Forse la creaturina si torceva fra le braccia della madre secondo il solito, finchè vinta questa pure da tale inutile tortura l'abbandonava o veniva dalle vicine a cercare aiuto. Adesso il pianto continuo, lento, pareva non dovesse cessare più.

La fanciulla ne tremava.

Poi un dolore acuto alla mammella sinistra, troppo stretta da una mano troppo pesante, le fece gettare un urlo, mentre l'altro abbracciandola subitamente alle reni la sollevava dalla sedia e col leggiero, grazioso corpo sul petto cadeva attraverso il canapè.

Ella si divincolò cogli occhi sbarrati, i denti stretti, così violentemente che dalle sue ginocchia scivolò quasi per terra: la pelle le bruciava.

—Eh! via,—gridò l'altro riafferrandola ai fianchi.

Ma essa lo guardava col petto nudo, il volto teso verso il suo nello sforzo di una parola suprema, che ne uscì come una fiamma.

—Sono vergine!

Poi le caddero le braccia, e rimase davanti a lui colla testa bassa, come un gran fiore falciato a mezzo. Egli stava sul canapè senza capire, colle ginocchia aperte e il volto smorto di un pallore, che gli si faceva più bianco intorno agli occhi.

E quel pianto della bambina seguitava sempre.

Con gesto freddoloso la fanciulla si restrinse i risvolti della giacca sul petto nudo senza osare di scostarsi. Perchè aveva fatto così? La mamma aveva udito? Ma una crispazione dello stomaco la fece ancora traballare piegandole il busto; l'altro la sostenne con una mano.

Quindi le prese fra le palme il volto per guardarlo un'ultima volta:

—Ti credo, ma tua madre è infame. Prendi.

Trasse dal portafogli quattro scudi.

—Fammi lume, che me ne vada subito: potrei pentirmi.

Ella prese la candela dal tavolo, l'altro era già all'uscio.

—Salvati se puoi,—le disse voltandosi nell'uscire.

Quando Tina tornò nella cucina fu sorpresa di non trovarvi la mamma; i quattro scudi erano ancora sulla tavola, ma la porta della camera si riaperse tosto.

Nessuna dello due trovò una parola: la mamma si accostò alla tavola, prese le quattro carte, esaminandole, senza che dal volto le trasparisse alcuna emozione.

—Oh! mamma, non potevo!—esclamò finalmente la fanciulla, gettandole le braccia al collo in uno scoppio di pianto senza lagrime.

L'altra l'accarezzava sulla testa.

—Calmati, Tina, hai fame? Adesso possiamo mangiare.

—No, no.

Ma quelle carezze la calmavano. Finì di abbottonarsi la giacca, si strinse la gonna sui fianchi perchè sentiva freddo e un gran bruciore di sete.

—Che cosa vuoi? dimmelo e vado fuori a prenderlo.

—Non ho fame, piglia tu quello che vuoi.

E le porse il fazzoletto nero.

—Non sei in collera?

—No, figlia mia. Lo so, è triste, per adesso non ci pensiamo. Dimmi piuttosto: vuoi che ti porti una costoletta cogli spinacci? Al Pavone è ancora aperto certamente: dammi la boccia del vino; ti occorre qualche cosa di caldo?

—Ma tu dunque?

—Di me non ti preoccupare.

La mamma aprì quel mobile strano, ne cavò un tovagliolo, una boccia di vetro bianco dal ventre grosso.

—Ti porterò degli aranci: quelli ti piacciono.

—Sì, piacciono anche a Bettina: comprale due o tre soldi di cioccolatini, andrò io a portarglieli. Non odi come dura a piangere? La signora Veronica sarà ancora alzata.

—Avrà udito quel signore andarsene.

—Era ben brutto, sai,—le sfuggì con un gesto di ripugnanza.

—No, t'inganni; era una persona per bene. Non è facile trattare come lui.

La fanciulla ridivenne pensierosa: aveva temuto un rabbuffo e quella condiscendenza le dava adesso una nuova emozione.

—Vado, sì.

—Porta teco il lume, lo lascerai in fondo alle scale.

—No, quel signore non ha chiusa la porta perchè non ne ho udito il tonfo. Giù al primo piano gli Arrighi, che sono sempre desti, se ne saranno accorti.

Questa preoccupazione cresceva in loro di minuto in minuto: per vincerla Tina spinse l'altra verso l'uscio, ma qualcuno batteva leggermente la porta del pianerottolo. Era la signora Veronica.

—Siete alzate ancora? Non mi sano ingannata,—disse colla sua voce chioccia ed insinuante:—Uscite, signora Adelaide? Terrò io compagnia alla Tina finchè torniate, o verrà lei da me. La bambina non vuol quietarsi.

—Ho detto alla mamma di comprarle dei cioccolatini; vedrete che si calmerà.

—Allora andate, aspetteremo,—l'altra si affrettò a rispondere, tirandosi da parte per lasciarla passare; e l'ascoltarono discendere le scale con un passo così lieve che appena lo si udiva.

* * *

Appena furono nella cucina, la fanciulla andò al camino e bevve d'un fiato tutto quel bicchier d'acqua.

L'altra guardava sempre coi grandi occhi grigi di gatto nel viso tondo e grasso dalle labbra sporgenti. Era vestita di un vecchio abito di flanella a righe scure, dentro il quale il suo corpo pareva insaccato; e infatti la carne le si ammassava ai fianchi sopra la guaina lenta della sottana, mentre le mammelle non sorrette dal busto cadevano mollemente sul ventre, confondendovisi.

Con un gesto abituale si grattò sopra la fronte fra la discriminatura dei capelli.

Ma Tina aveva paura di parlare dinanzi a lei che forse aveva già giudicato. Nella sua testa pesante pel digiuno quella disgrazia interrotta da un mirabile caso diventava quasi più dolorosa nella immutata certezza dell'indomani, e la fanciulla tornava a tremarne, come se ancora sentisse sul collo il soffio caldo di quell'uomo, che le frugava violentemente nel seno. Poi si ricordò la sua esclamazione: oh non hai nemmeno la camicia! provandone nuovamente la stessa vergogna, più acuta forse che di essere stata così fra le sue braccia, quantunque egli dovesse avere già prima indovinato tutta la loro miseria.

Ma anche la miseria ha limiti, oltre i quali il suo dolore raddoppia.

Le sfuggì un sospiro.

La signora Veronica disse:

—Dove è andata la signora Adelaide? Al Pavone?

—Sì.

—Ditemi che cosa le avete ordinato.

—Io! nulla.

—Avete torto di trattarvi così; al mondo bisogna stare meno peggio che si può, adesso mangerete, appena torni la signora Adelaide. Vedrete che sa scegliere.

Dall'altro appartamento si udiva sempre il pianto sommesso della bambina. La piccola voce non cresceva, non diminuiva, simile a quella di un rivolo, che s'ingorghi in una chiavica; ma forse per questo la fanciulla ne provava una impressione sempre più penosa.

—Che cosa ha stasera Bettina?

—Il solito.

—Povera piccina!

—Che cosa volete farci? Io non ci posso nulla, ma finirà coll'addormentarsi per qualche ora lasciandomi dormire. Oggi le avevo fatto una zuppa col latte, che le piace; non l'ha voluta.

—Non si può mangiare certe volte.

—Eppure non serve a nulla star digiuni, perchè dopo vi sentite peggio. Vedete, io soffro di vedere così la mia bambina, ma mi faccio forza a mangiare quando ne ho, altrimenti se non mangiassi che cosa accadrebbe? Mi ammalerei anch'io e non potrei più aiutarla. Bisogna essere ragionevoli.

Parlava adagio scandendo le sillabe, e la sua fisonomia pareva buona malgrado l'egoismo delle parole.

Tina la conosceva sin dal primo giorno, nel quale era diventata la loro vicina, e non l'aveva mai veduta esaltarsi davanti al lungo atroce martirio di quella creaturina, che espiava così i vizi del padre. Anzi la signora Veronica lo aveva subito spiegato col suo accento tranquillo: ella era senza colpa di quel male di quella miseria, nella quale avevano dovuto cascare; perchè dunque se ne sarebbe arrovellata soffrendone maggiormente? Poi la bambina non poteva vivere, i medici stessi lo avevano assicurato. I rimedi, se avesse potuto comprarli, non le sarebbero stati di alcun giovamento; valeva dunque meglio spendere altrimenti quei danari, qualora capitassero.

Tina si alzò.

—Dove andate?

—A vederla.

L'altra tacque.

Allora, davanti a quella indifferenza, l'orgasmo le cadde: tornò a sedersi. Ma Tina si avvide che l'altra la scrutava con quegli occhi grigi, pieni di una luce fredda. Infatti il viso della fanciulla era così alterato che sarebbe stato impossibile non accorgersene: tratto tratto dal fondo delle sue pupille azzurre una fiamma dardeggiava come sotto un soffio; aveva le labbra livide e il seno le ansava. Adesso l'ombra di quei due cerchi sotto gli occhi le si allargava per le guance, confondendosi colla oscurità della bocca.

Nessuna delle due parlava più.

La ragazza sentiva che l'altra non avrebbe potuto accettare il racconto di quella inverosimile fortuna: d'altronde la cosa avverrebbe egualmente; domani, posdomani? Come spiegare la cena, che la mamma avrebbe portato fra poco? Anzi tale elemosina troppo grossa diventava un nuovo motivo d'incredulità, mentre domani un altro, il secondo, non farebbe certamente così: e allora? La sua testa si confondeva, il sangue tornava a batterle sul cuore con lunghe onde spaventate.

Tina distinse lo scalpiccìo della mamma.

Appena nella cucina la signora Adelaide respirò rumorosamente, ma ansimava: dal tovagliolo chiuso nel suo pugno colle quattro cocche riunite un odore vaporava sottilmente.

—Buono!—esclamò la signora Veronica, levando il naso all'aria.

—Vedrai, Tina,—rispose la mamma con una certa volubilità nella voce,—vedrai che bella costoletta sono riuscita a portarti. Era l'ultima, a quest'ora, che restasse nella cucina, poi vi ho fatto io stessa un contorno di patate arrostite nella leccarda col ramerino. Guarda: ho anche una doppia porzione di maccheroni e del lesso di manzo.

—Non vi sarete già dimenticata i cioccolatini?

—Ti pare?

E trasse da una tasca profonda della sottana una bottiglietta bianca, piena di un liquido rosso.

—È alchermes, ne berrai un sorso dopo cena, perchè il vino non è gran cosa: però ho dovuto pagarlo in ragione di quarantadue soldi al fiasco. I ladri! scommetto che non ne costa loro più di venti.

Ma Tina si era già alzata, prendendo dal tavolo il piccolo cartoccio dei cioccolatini.

—Dove andate?—la fermò la signora Veronica:—Bettina si è quetata.

Infatti era vero. Allora le due donne apparecchiarono la cena, distesero una mezza tovaglia abbastanza bianca, trovarono dei piatti, dei bicchieri, delle posate; nel mezzo della tavola il tovagliolo copriva ancora colle punte riunite tutta la cena, solo il pane ne rimaneva fuori, una grossa pagnotta dorata, che la signora Adelaide aveva portato sotto il braccio.

—Andiamo, signora Veronica,—disse la mamma,—favorite con noi: c'è poco da assaggiare, ma qualche cosa c'è.

La signora Veronica fece un gesto dignitoso di riserbo, ma l'altra, che la conosceva, le spinse innanzi un piatto colla posata migliore, poi accarezzò la testa di Tina. Evidentemente la testa scottava, perchè alzò subito la mano e una incertezza le passò sulla faccia pallida: la sua fronte si curvò un'altra volta umilmente.

Tina, col capo appoggiato sulla palma sinistra, guardava nel vuoto.

—Adesso bisogna cercare dentro il tovagliolo,—proruppe allegramente la signora Veronica;—non basta aver capito dall'odore. Volete che faccia io? Una volta ci avevo un certo garbo.

E senza attendere il permesso sciolse le punte del tovagliolo.

—Tò! anche degli aranci, me n'ero accorta al profumo. Vedete, Tina: il lesso grasso e magro, questo è davvero una cosa eccellente, perchè è proprio un pezzo di lombata: così freddo è anche migliore. Invece i maccheroni bisogna mangiarli subito, altrimenti nell'agghiacciarsi perdono il sapore, e poi si aggrumano. Ne convenite, signora Adelaide? Avete però scelto bene. Oh! Oh!—seguitò levandosi in piedi dalla meraviglia nello scoprire il piatto della costoletta:—le belle patate spruzzate di ramerino, belle, color d'oro!

Anche Tina guardava.

—Osservate,—proseguiva l'altra con più seduttrice intenzione, volendo farla ridere ad ogni costo,—non vi sono molte donne a Firenze di un biondo dorato come questa costoletta e queste patate, ma nelle donne a me il biondo non piace. Meglio i vostri capelli castani così graziosamente arruffati,—e glieli accarezzò colla mano corta e pesante.

—Via, bisogna spicciarsi coi maccheroni!

—Tina, Tina, mangiate, e anche voi, signora Adelaide; io proprio non ho fame, piuttosto, se permettete, assaggerò il vino.

Ma a Tina i bocconi non andavano giù: quindi finì per immergere qualche crosta di pane nel vino, mentre le altre due divoravano. Anche la mamma pareva affamata, e la sua faccia melanconica si veniva rischiarando, sebbene dalla tristezza della figlia salisse sempre verso di lei una certa inquietudine.

—Che volete?—diceva la signora Veronica, la quale aveva già finito la propria parte di maccheroni e guardava con lunghe occhiate la costoletta:—io, da giovane, ho avuto sempre un debole per le cene a notte tarda, magari fuori di casa. Mi pare che così si chiuda meglio la giornata: poi si cena sempre con qualche giovanotto allegro, si ride, si dimentica. Se al mondo non ci scordassimo le disgrazie, si dovrebbe morire presto. Quando si cena in compagnia,—e spiava di sottecchi Tina,—è un caso che qualcuno non ci piaccia più degli altri, ma bisogna essere giovane come voi, ragazza mia, per potersi divertire. Ecco, taglierò la costoletta in tre parti, ne mangerete una anche voi, Tina.

Questa fece un gesto di rifiuto, e l'altra chinandosele con una finta carezza all'orecchio sussurrò:

—Avete male?

La fanciulla trasalì e rispose quasi violentemente:

—No.

Successe un silenzio.

La mamma, non osando parlare, accettò dalla signora Veronica la propria parte di costoletta; nel piatto ne rimaneva ancora un pezzo con alcune patate per Tina, ma questa ascoltava nuovamente il pianto della bimba, che il dolore all'orecchio aveva destato. Pareva un cagnino che uggiolasse, e il suo lamento era così monotono che non vi si intendeva alcun appello. Soffriva indarno, abbandonata. Tina ci pensava con un senso quasi di rancore crudele, mentre poco prima il suo cuore se n'era commosso sino a piangere dentro di tenerezza. A che pro? Nella vita v'è sempre qualcuno che nasce non si sa perchè, solamente per soffrire i capricci degli altri, che lo allevano anch'essi senza motivo, perchè questo è l'istinto. Bettina aveva pianto sino dal primo giorno; quindi la madre vi si era abituata e, senza essere peggiore delle altre, non aveva per lei che i riguardi, coi quali si trattano i cani ammalati: una certa condiscendenza soccorrevole, che fa piacere a chi l'esercita come una prova della propria bontà. Null'altro: se il cane guarisce, il trattamento ridiviene quello di prima. Tina non si ricordava di essere mai stata ammalata, sebbene non avesse mai avuto troppa vivacità, e adesso le pareva di non sentire da moltissimo tempo il bisogno di mangiare. A che cosa serviva dunque comprare una simile cena, quando non si riusciva a mandarla giù? Invece le altre due avevano fame: ella le guardava senza dispetto e senza invidia, quasi con una pietà, che non avrebbe saputo spiegarsi, nel vederle così incapaci di comprendere la sua angoscia di quel momento. Anch'ella era sola come Bettina, quantunque non guaisse, non piangesse; ma invece aveva un gran freddo sotto la sottana, mentre quel piccolo dolore alla mammella si faceva sempre più sottile come se un ago ne forasse tratto tratto il tenero bocciolo.

—Mangia dunque quest'ultimo pezzo di costoletta, altrimenti ti riprenderà il male di stomaco,—disse la mamma.

—La mamma ha ragione, cara mia: bisogna mangiare, altrimenti le cose si veggono anche più in nero. Vedete, quando io ho mangiato, e adesso non avevo fame, considero le mie circostanze sotto un altro punto di vista: mi pare che qualche cosa verrà ad aiutarmi.

—Che cosa vi aspettate?—chiese la ragazza.

—Non lo so, non sono come voi, che potete ancora sperare tutto. Voi siete bella.

—Ah! questo poi sì,—esclamò la mamma.

—Alla vostra età non si ha che a volere. Io e la signora Adelaide non siamo più donne… mi scusate eh! signora Adelaide, mi è sfuggita. Quando si è giovane invece, e per giunta si è bella, gli uomini diventano matti per noi, si può fare qualunque fortuna. Un po' di testa, ecco il necessario, e si arriva dove si vuole. Allegri, Tina!

Questa non potè difendersi da un sorriso.

—Così voglio vedervi.

La madre ne profittò per spingerle davanti il piatto, ma la ragazza lo passò alla signora Veronica e prese un arancio.

—Badate,—osservò questa,—forse non sapete il proverbio siciliano: gli aranci al mattino sono di oro, a mezzogiorno di argento, la notte di piombo. Siccome avete lo stomaco quasi vuoto, potrebbe riuscirvi indigesto.

—Lo sbuccio soltanto.

—Siete anche voi di quelle che si divertono a masticare la buccia?

Fuori un orologio suonò le undici.

—È tardi, ma ci siamo fatte buona compagnia.

—Restate, restate,—ribattè Tina:—non ho sonno. Tu, mamma, se vuoi, va a dormire.

—Figurati: aspetterò quanto vorrai.

—Che cosa ci diremo dunque?—interrogò con un risolino la signora
Veronica, finendo di vuotare il bicchiere.

Anche la boccia era oramai vuota.

Questa domanda parve cadere pesantemente sulla tavola: allora Tina si alzò dirigendosi al buio verso la camera della piccina, nella quale sapeva che un lucignolo bruciava sempre.

Le due donne rimaste sole si guardarono: la signora Veronica aspettava una confidenza, e siccome l'altra taceva, disse:

—Tina non soffre affatto, l'ho notato subito, ma bisogna farla mangiare.

L'altra esitava:

—Domani mangerà, quando le sarà passata la prima impressione, perchè non le è accaduto nulla. Quel signore non le ha dato che un bacio e se n'è andato subito.

—Oh! davvero? Era giovane?

—Sì, forse nemmeno venticinque anni.

—Ecco perchè è impossibile: i vecchi invece…

Si vedeva che avrebbe voluto chiedere altri particolari, ma sapendo che o prima o poi non le sarebbero mancati, aspettava.

—Bene, bene, adesso se avessimo del fuoco, io ho in casa un poco di zucchero, bisognerebbe farle un punch caldo con l'arancio per rimetterla in sesto: il punch dolce di alchermes è eccellente.

—Non c'è fuoco.

—Un vero peccato.

Non si udiva più la piccina piangere.

—Ella l'ha calmata, sono due bimbe che s'intendono,—disse con un sorriso la signora Veronica:—non avete più sete, signora Adelaide? bevete: a che pro lasciare l'ultimo gocciolo nella bottiglia? Tanto domani ne comprerete ancora, non è vero?

—Domani certamente, ma e dopo?—aggiunse smozzando la voce.

—La fortuna va presa donde viene e come viene: ecco Tina che ritorna.

La signora Veronica guardandola camminare credette di riconoscere la verità di quanto la signora Adelaide le aveva detto, e se ne sentì dentro tutta commossa. Possibile che esistessero, ancora uomini simili! Sono fortune incredibili, proprio da festeggiare con una cena: dopo bisogna rassegnarsi a passare sulla strada comune, dove passano tutte, lasciandovi quello che si ha di meglio, la bellezza, e finalmente la pelle.

—Assaggiate l'alchermes, Tina, vi spremeremo dentro un po' di arancio e vi farà bene.

—Come volete.

—Bettina?

—Si è subito calmata: le ho messo un cioccolatino in bocca per ricompensa. Vedrete che si addormenta.

—Così dormirò anch'io.

* * *

Sul pagliericcio accanto alla mamma Tina invece non dormiva.

Siccome la griglia era rimasta aperta, la luce della notte diventava più serena, entrava pei vetri a rischiarare la camera. Sul letto non avevano che una vecchia coperta imbottita, dalla quale nel giorno si vedevano uscire per gli strappi i ciuffi biancastri della lana, ma in quella stagione, già mite, era più che sufficiente. Anzi Tina, cacciandovisi sotto, ne aveva provato sulle prime una inconsueta oppressione.

Poi la madre aveva insistito per sapere che cosa desiderasse l'indomani, perchè di quei quattro scudi le rimanevano ancora diciassette lire, una somma relativamente enorme nella loro abituale miseria; ma la ragazza non aveva più voglie.

Il suo spirito era rimasto come sconnesso dalla violenza di quella scena senza che dal cuore le si alzasse alcuna voce di rimprovero contro la mamma, giacchè tutte e due si amavano ancora con la tenacità così frequente nelle vite povere, che condensano in uno solo tutti gli affetti. La fanciulla infatti non si ricordava quasi più i giorni lontani, dai quali lo stormo delle speranze aveva potuto involarsi gaiamente pel cielo, ma dopo era sempre stato presso a poco così, una caccia ostinata ed infelice ai pochi soldi della loro esistenza quotidiana, discendendo nella miseria come dentro ad un pozzo oscuro, nel fondo del quale un'acqua morta rifletteva le loro due figure.

Improvvisamente la mamma si volse: con ambo le mani le prese il collo e la baciò silenziosamente.

—La tua mamma! Le vuoi bene, Tina, non è vero?

L'altra rispose con un bacio.

—Non era per me, non era per me: seguitava con voce piagnucolosa, ma non posso più vederti così. Poi vedi che ho ragione; ci sono degli uomini generosi, che s'innamorano davvero e diventano capaci di qualunque sacrificio per una donna. L'essenziale è di uscire da questa miseria, che toglie ad una donna qualunque valore, perchè, te l'ho detto cento volte, gli uomini vogliono potersi vantare della loro amante. Sono tutti vanitosi, anche quando amano: sciaguratamente quel signore non è ricco.

—Come lo sai?

—Me ne sono accorta subito alle maniere, a quel certo non so che dei veri signori. Ma egli è giovane, dev'essere buono, tornerà.

—Tornerà!

—Ti piace? È brutto, me lo hai già detto.

—Sì, sì, brutto.

L'altra tacque, poi stringendosele ancora più addosso ripigliò:

—Hai ragione. Però, Tina mia, un uomo non è mai come ci pare la prima volta: bisogna conoscerlo, e poi mutiamo anche noi a suo riguardo. Egli è brutto, ne convengo. Lo hai guardato nella faccia quando ti ha dato i quattro scudi e ti ha detto: vado via, fammi lume subito perchè potrei pentirmi?

—No.

—Io ho sentito che la sua voce tremava: ero coll'orecchio incollato all'uscio.

Tina fu scossa da un brivido.

—Ho paura, ho paura.

—Sì, figliuola mia, come sarebbe diversamente? Ma tornerà, a quest'ora è già innamorato di te, altrimenti non avrebbe potuto agire così. Pochi, sai, Tina mia, ben pochi avrebbero saputo resistere alla tentazione con te: ci vuole un po' di cuore per questo.

—Ma se mi vedeva la prima volta!

—Non importa, è così. Peccato che egli non sia ricco.

Dopo una pausa la ragazza disse improvvisamente:

—La signora Veronica ti ha mangiato tutto.

—Sì, è il suo solito: lo sai che è golosa.

—Ma essa mangia tutti i giorni: ne sa cavare dei danari, non è come noi.

—Hai ragione,—l'altra rispose tristamente:—e tu hai fame? Come ti senti?

—Sto meglio.

—Cerca di dormire.

—Sì, anche tu.

Si baciarono: poi la mamma le chiese ancora, prima di voltarsi sull'altro fianco:

—Mi vuoi bene?

—Oh mamma!

* * *

Ma un'ora dopo Tina piangeva silenziosamente col volto dietro la schiena della mamma addormentata.

Senza intendere bene il perchè, la fanciulla si sentiva vinta da una profonda pietà di se stessa. Le sembrava quasi che la vita si distaccasse dalla sua anima come qualche cosa, che non le apparteneva più e che un altro poteva prendere fra le mani con la indifferente crudeltà dei fanciulli, quando nella effervescenza di un capriccio smembrano un piccolo animale.

E anch'essa era così, perduta in un pericolo mortale, con un freddo di febbre nelle carni, che la faceva tremare di paura, pur sapendo di essere amata dalla mamma con una tenerezza, della quale non aveva mai dubitato. Ma le condizioni della vita non avevano mai permesso loro di potere come tante altre donne abbandonarsi alla negligente sicurezza che l'indomani sarebbe come l'oggi; invece ogni mattina ricominciava il medesimo problema con la necessità di mangiare, di vestirsi, di avere le scarpe, e il terrore di ammalarsi sprovviste di tutto come in quell'ultimo inverno, quando la mamma era rimasta a letto quasi due mesi. Era stata un'agonia lenta, muta: le notti diventavano più lunghe, i giorni non finivano più. Avevano dovuto a poco a poco vendere quasi tutto, rimanendo senza materassi, senza lenzuoli, quasi senza camicia: ella non ne aveva che due così rappezzate che si vergognava d'indossarle: ecco perchè quella sera non aveva indosso che un corsetto della mamma; ma le scarpe non le permettevano quasi più di uscire.

Mentre piangeva così raggomitolata sotto le coperte, non si ricordava più distintamente di nulla: era soltanto una tristezza simile a quella che debbono provare i prigionieri a certe ore, quando ripensano che non usciranno mai di carcere o che uscendone non troverebbero più alcuno ad aspettarli. La scena stessa, violenta e fortunata, nella quale la sua giovinezza era quasi perita, le si confondeva nella memoria sotto uno sgomento di sogno. Poi rivedeva ancora quell'uomo giovane, che l'aveva accarezzata sino all'ultimo momento, gittandosi su lei con le mani febbrili; ma anche allora i suoi occhi accesi sorridevano e le sue mani nel farle male non erano come quelle della mamma, le poche volte che da piccina l'aveva percossa. Improvvisamente, come se una fiamma l'investisse, si era sentita ardere sino dentro la carne, colla testa assordata da un tumulto, mentre dal fondo dell'anima una ripulsa acuta, spasmodica, le saliva impetuosamente alle labbra facendola urlare, E aveva gridato nella difesa della propria vita, disperatamente.

Eppure sapeva già tutto.

Anzi si era preparata al sacrifizio ascoltando molti giorni prima le esortazioni della mamma e i consigli indiretti della signora Veronica. Ma la sua giovinezza, troppo diversa da quella delle fanciulle cresciute nelle famiglie oneste o nei conventi, se conosceva già le miserie e le vergogne della vita, non ne aveva ancora perduta l'ingenua delicatezza, poichè la primavera sonnecchiava nel suo bel corpo pallido come in uno di quei fiori cresciuti nascostamente senza sole.

Così una ripugnanza di spavento e di orrore le faceva quasi credere di dover subire una mutilazione, qualche cosa di avvilente e di straziante come sotto il ferro di un chirurgo, che vi taglia la carne, e dopo si resta per tutta la vita deformi davanti al sorriso della gente. Perchè dunque le si voleva imporre questo? La mamma aveva parlato tristamente, mentre la signora Veronica ne sorrideva come di una cosa inevitabile, alla quale si volesse dare troppa importanza: secondo lei si trattava soltanto di cavarne tutto il vantaggio possibile.

Ma a poco a poco la fanciulla si distrasse.

Non aveva quasi mangiato e la testa le ronzava ancora.

Alla luce della finestra la stanza appariva vuota: non vi era che un comò, tutto il resto era stato venduto, e sul comò uno specchietto incastrato in una scatola aveva un luccicore di acqua nella notte.

Per quel vicolo deserto non passava alcuno.

Per un momento ella pensò agli inquilini della casa; gli Arrighi al primo piano, una famiglia di un conciapelli, che guadagnava sei lire al giorno: la signora Giovanna, alta, bruna, con un'aria da uomo e tre figlie che cucivano di bianco; la mamma aveva per amante un garzone da caffè, e la maggiore delle figlie era innamorata del calzolaio, che lavorava sempre alla finestra dirimpetto alla loro. Nella famiglia scoppiavano continue liti, quantunque il padre, sulla cinquantina, pacifico e bonario, sopportasse. Al secondo piano abitava un muratore con una donna, che non era sua moglie, e nell'altra camera un vecchio pensionato, solo; non lo si vedeva quasi mai. Ella conosceva tutti, e tutti le volevano bene, quantunque non avesse reso loro nessun vero servizio; la signora Veronica, invece, era mal vista.

Ma la fanciulla non si domandò nemmeno se avessero potuto accorgersi di quel signore, altrimenti questo dubbio sarebbe bastato a gettarle nell'animo un nuovo terrore.

Quella sigaraia, che stava col muratore, era bionda, quasi bella, di un cuore così allegro che canticchiava spesso per le scale tornando dal lavoro: una volta, nell'inverno, era venuta ad invitarla a pranzo, e l'aveva trattata benissimo perchè si stimava nata in una condizione più bassa.

Tina si ricordò di un gran pezzo di migliaccio mangiato dopo le frutta.

E dormivano felici, soli, sotto quella camera.

* * *

Adesso le pareva di essere seduta sulla soglia di una chiesa.

Da tutte le strade la gente arrivava vestita a festa: i bambini suonavano le trombette, le mamme guardavano sorridendo. Ella aveva oltrepassato la folla, assorta nello spasimo della propria miseria, che le toglieva di sentire ogni altra cosa; ma si ricordava di essere scappata di casa appena la mamma si era assopita, quantunque in quella dormiveglia il suo viso giallo esprimesse la medesima tristezza insopportabile. Così come si trovava, senza fazzoletto in testa, coi piedi dentro due vecchie calze rattoppate e quel corsetto da notte mal chiuso, era fuggita. Dalla porta della chiesa si vedeva nello sfondo scuro una infinità di ceri accesi, che sembravano nelle fiamme tanti chiodi roventi; e un odore d'incenso usciva a sbuffi, dandole al capo una sensazione dolorosa.

Accoccolata sopra uno scalino, coi gomiti sulle ginocchia e la mano sinistra tesa, aspettava sempre che qualcuno nell'entrare le facesse l'elemosina, ma non osava domandarla, guardando con gli occhi così fissi che ella stessa ne sentiva tutto il peso. Poi si era accorta di mostrare le calze bucherate sino a mezzo lo stinco, perchè la sottana troppo corta si raccorciava ancora in tale atteggiamento, mentre quel corsetto della mamma le copriva le piccole mammelle illividite dal freddo.

E a poco a poco la gente cominciava ad entrare. Erano gruppi di donne vecchie, col fazzoletto sui capelli bianchi: alcune avevano un rosario nelle mani, altre scuotevano il capo paraliticamente affrettandosi verso la soglia, dalla quale sfuggivano fra i vapori dell'incenso le prime voci sonore delle preghiere.

Tutti i volti si componevano a una gravità solenne nel passare la porta, le fronti s'inchinavano e ogni parola cessava; i bambini invece si traevano sorridendo i berretti, e gli uomini si guardavano ai panni, ma nessuno le aveva ancora badato. Ella, senza parlare, fissava tutte quelle facce con la disperata intenzione di attirare qualche sguardo, perchè l'anima intera le ardeva negli occhi con una fiamma ancora più rossa dei ceri accesi sui candelabri dell'altare. E le pareva quasi di vederne il getto tremare nell'aria dinanzi alle pupille, mentre il freddo dello scalino attraverso quella sottile sottana le saliva per le reni insino ai riccioli della nuca.

Perchè dunque era venuta a sedersi su quella porta?

I poveri, che vi stazionavano spesso, sapevano chiedere con la voce e col gesto, e la loro voce piangeva e il gesto fermava la gente come un ostacolo pietoso: ella invece non sapeva che guardare, bruciando nella fiamma degli occhi tutte le preghiere, come nel momento dell'elevazione i chierici gittano nuovi grani d'incenso nei turiboli per sollevarne una nuvola bianca ondeggiante sull'altare. La sua piccola mano, aperta in quella muta invocazione, tremava già indolenzita, senza che nessuno se ne fosse ancora accorto. Immobile, in uno stupore sempre più angoscioso, ella si chiedeva come mai il suo caso non attirasse l'attenzione, quantunque la miseria sia uno spettacolo fin troppo ordinario all'angolo di ogni via e sulle soglie delle chiese per vincere facilmente l'indifferenza della gente; ma gli uomini, anche giovani, le passavano accanto sfiorandole la mano, e i vecchi entravano raccolti in se stessi, col capo curvo verso la terra, che li chiamava sommessamente.

—La mia mamma muore! la mia mamma muore!—voleva gridare levandosi collo stesso impeto disperato, come era fuggita di casa senza nemmeno chiudere l'uscio.

E si ricordava di non aver incontrato per le scale che un inquilino vecchio, il quale viveva solo, celando la propria miseria in una cameretta sotto la loro: nessuno lo conosceva, egli non parlava con alcuno. Si erano guardati nel viso, poi il vecchio lo aveva abbassato tristamente per nascondere forse di aver capito. Bisognava dunque morire così. Non bastava che fosse venuta sulla porta di quella chiesa a domandare l'elemosina? Forse a quest'ora la mamma si era desta e la cercava ansiosamente con gli occhi; nessun altro era in quella camera, perchè da due mesi nessuno v'entrava più.

Allora volle alzarsi, ma un peso enorme la premè su quello scalino senza permetterle nemmeno di spostare il gomito. Si sentiva piegare le reni e il respiro le usciva a stento dalla bocca, mentre un'altra gravezza, come di una invisibile calotta, le spingeva la punta del mento sempre più innanzi nella palma della mano. Ripetutamente si sforzò di voltare la faccia verso la chiesa. La messa doveva essere a mezzo, perchè il campanello del chierico tintinniva: ella ne ricevette le percosse vibranti sul cuore, poi lontano le campane di un'altra chiesa squillarono. Il piazzale era deserto.

Improvvisamente vide avanzarsi quel signore giovane vestito di nero: lo riconobbe all'alta statura e al viso storto, dentro al quale gli occhi lucevano dello stesso splendore, ma anch'egli doveva averla ravvisata, giacchè veniva dritto verso di lei con una rosa rossa in mano. Quando mise il piede sullo scalino, ella spaventata non pensò nemmeno a tendergli la mano: l'altro invece le si chinò sul volto bruciandoglielo con quella fiamma, che la fanciulla aveva già sentito, e le piantò il gambo della rosa dentro al capezzolo della mammella sinistra. Il dolore fu così acuto, che le parve di svenire, poi non vide più nulla. Il gambo le penetrava sempre più addentro, rigido, sottile, mentre la rosa troppo pesante le tirava giù la piccola mammella verso il grembo. Giammai aveva provato fitte più lunghe ed atroci. Il sangue, uscendo a gocce, bagnava tutta la rosa e cadeva dentro la tazza dal manico rotto, nella quale la mamma prendeva qualche volta il caffè. Come mai aveva quella tazza fra le ginocchia? Che cosa era stato?

Perchè aveva egli fatto così?

Adesso gli occhi le si cominciavano ad intorbidare; ad una ad una udiva il tonfo delle gocce con uno sbigottimento mortale, come se la vita le mancasse in un freddo, che le faceva diventare di marmo tutte le carni, quando si accorse d'un tratto di avere sul fianco sinistro la piccola Betta con quel vestone rosso regalatole da una vecchia marchesa per la festa della Befana. Ma la bambina non pareva più ammalata, e rideva vedendo sgocciolare il sangue nella tazza. Certo passò del tempo. Le gocce cadendo nella tazza ormai piena davano un altro suono, mentre la mammella vuota si allungava sempre più dolorosamente sulla rosa greve di sangue. Confusamente capì di morire; poi una suprema reazione le fece aprire gli occhi per strapparsi il fiore dalla ferita, ma le mani erano diventate troppo pesanti e gli occhi le si abbacinarono nello splendore di tutto quel rosso ardente come una fiamma.

Era una morte quasi dolce, la ferita non le doleva più: distese le gambe, e la sua mano incontrò la testa ricciuta della bambina, che le si chinava sul grembo per prendere la tazza.

—Bevi, se non vuoi morire,—diceva Bettina, tendendole la tazza alle labbra:—ma dammi prima un cioccolatino.

E il suo riso goloso diventava crudele nell'attesa.

—Non ne ho più;—mormorò la morente.

—Dammelo o butto via la tazza.

—Anche tu sei cattiva.

Credette di aver detto così l'ultima parola: non sentiva più male, era solamente in un buio profondo, silenzioso.

Ma la voce disperata della piccina la scosse, aperse gli occhi e la vide fra le braccia di quel signore giovane, che la portava via frugandole con la mano nel petto come aveva già fatto con lei.

—Tina, Tina!—gridava Betta.

Quando si destò, la mamma dormiva sempre e la piccina piangeva davvero nell'altra stanza lontana.

LA SECONDA GIORNATA

Doveva essere per l'indomani.

Quando Tina si risvegliò, la mamma già alzata da un pezzo lavorava nella cucina; la fanciulla si sentiva affranta, con la bocca pastosa e la testa greve. Come al solito il risveglio nella luce di quella camera, sempre con le griglie aperte, le diede la sensazione confusa di un male, che tornava a ripetersi con la immutabile monotonia di una giornata vuota. Infatti ella non aveva niente da fare. La loro casa in quel vicolo molto illuminato era delle più quiete: gli uomini ne partivano presto e le donne, chiuse nelle proprie stanze, non ne uscivano spesso, perchè mancava il cortile e le scale rimanevano sempre buie. Ella s'alzava dopo la mamma, che le aveva già preparata l'acqua nel catino, ma dopo restava lì incantata senza sapere come ammazzare il tempo.

Da piccina se ne ricordava però uno meno triste.

Allora la mamma teneva in casa una vecchia serva dai capelli bianchi, con gli occhi che parevano vuoti come quelli delle statue. La sua taciturnità era così ostinata che non si riusciva a farla chiacchierare nemmeno nei momenti di festa, quando la mamma, tornando a casa contenta, si metteva a giocare con la bambina. La vecchia invece teneva le camere con una pulizia ammirabile. Tina non sapeva niente di lei, sebbene con la grazia dell'innocenza fosse riuscita a farsi amare: solamente la vecchia confessava di non avere più nessuno al mondo dopo che sua figlia era morta improvvisamente nella vigilia delle nozze. La figlia si chiamava Marietta, ma la vecchia evitava di parlarne, come se a quel ricordo una cicatrice le si riaprisse dentro rendendole più penoso il silenzio lungo di tutti i giorni. Con la mamma andavano abbastanza d'accordo. Infatti questa comandava così poco nella casa che ne lasciava all'altra tutta la cura: altre volte stava fuori l'intera giornata non avendovi fatto che colazione, perchè era pigra e si alzava sempre dopo le dieci. Però in casa non mancava nulla. La vecchia preparava sempre il solito pranzetto; la mamma mangiava indifferentemente di tutto, ella invece così piccina era già piena di voglie e di bizze, che spesso la facevano piangere. In fondo amava però quella vecchia almeno quanto la mamma, sebbene non potesse con quella soddisfare tutte le tirannie della sua piccola volontà.

La faccia della vecchia non era bella. Le mancavano quasi tutti i denti davanti e i capelli si erano tanto diradati sulla fronte, che vi portava sempre un fazzoletto a quadroni turchini, anche d'estate. Ma quel velo di silenzio dava alla sua faccia giallognola una gravità ben diversa dall'altra della mamma, allorchè questa voleva con accento di padrona rivolgerle qualche rimprovero, o si metteva a fare delle considerazioni dolenti sulle difficoltà di andare innanzi senza avere una posizione assicurata. La fanciulla ascoltava il dialogo delle due donne, vedendo sempre la mamma cedere con un gesto scoraggiato alle parole della serva, che dovevano essere ben tristi, quantunque ella non potesse comprenderne il senso. Ma la vecchia non si scomponeva mai, parlava adagio, con accenti secchi, mentre la mamma invece scattava, si agitava, e talvolta piangeva.

Spesso venivano in casa uomini ignoti, ben vestiti, ma la vecchia allora non lasciava più la cucina e chiudeva l'uscio a chiave, dicendo a Tina di non fare rumore, o mettendola sopra una sedia le dava qualche cosa da mangiare, un frutto, una chicca, con certe carezze insolite, che irritavano la fanciulletta.

Però queste visite non erano lunghe.

Una volta la mamma rientrò in cucina pallida, cogli occhi gonfi. Si vedeva che soffriva. Aveva quella vestaglia bianca, inamidata, che non portava quasi mai, colle frappe dritte intorno al collo, ma la metà dei capelli le cadeva in disordine sopra una spalla e dai bottoni mal chiusi le si vedeva sotto la camicia, anch'essa aperta.

Il signore se n'era andato.

La madre cadde sopra una sedia vacillando.

Un dolore le contrasse la bocca facendole mordere il fazzoletto, che teneva fra le mani: disse qualche parola sottovoce alla vecchia, che mise subito al fuoco un pentolino d'acqua e andò a cercarle nella credenza la bottiglia del marsala. Tina guardava spaurita, poi la mamma la vide e la chiamò con un gesto smanioso per darle un bacio. Allora si misero tutte due a singhiozzare.

La vecchia tornò silenziosamente verso di loro.

—Non ci posso durare,—esclamò la mamma, alzandole gli occhi in faccia quasi ad invocarla come testimonio:—è già una settimana, oggi poi…

—Che cosa hai, mammina?—domandò Tina con un altro scoppio di pianto.

—Mi sento male, cuore mio.

—Dove, mamma, dove?

—Tu non puoi capire. Oh!—si rivolse all'altra:—c'è stato un momento che credevo di morire.

Gli occhi opachi della serva si appannarono di una nuova ombra; si lasciò prendere la mano dalla padrona e con l'altra accarezzò la testa della piccina.

—Bisognerà che per qualche tempo vi abbiate riguardo,—disse lentamente.

—Come vuoi fare?

—Che cosa hai, mamma?

—Cuore mio, è per te, per te, sai, che soffro; per me sola non lo farei.

Ma la serva scosse la testa.

Tina, non potendo capire, aveva smesso di piangere e guardava or l'una or l'altra, presa nella curiosità di quel segreto doloroso, dentro il quale le parole suonavano come i ciottolini, che qualche volta si era divertita a gettare nella profondità del pozzo.

Ma la mamma, appena stava bene, non si ricordava di quei dolori improvvisi.

* * *

Tina aveva conosciuto anche un vecchio signore.

Era piccolo, dal viso rubizzo, e sempre allegro. Quando veniva in casa a pranzo, ed accadeva spesso, aveva sempre nelle tasche qualche cartoccio, un giocattolo o una ghiottoneria, che si divertiva a mostrarle, affermando sempre che era per un'altra bambina. Allora cominciava la solita lotta di carezze e di repulse: Tina gli saliva sulle ginocchia, gli cacciava la mano nelle tasche, l'inondava di baci strillando, ridendo, coll'irresistibile grazia dell'infanzia, finchè la mamma non le veniva in aiuto, ed egli cedeva vinto dalla tenerezza. In casa lo chiamavano il signor Gennaro. Ma la bambina si era accorta che tutto aveva cangiato dal giorno che egli era venuto. La mamma vestiva da signora, a pranzo non si levava più come prima qualche cosa per la cena: poi avevano cangiato appartamento, e vicino alla camera della mamma piena di mobili nuovi, c'era un salottino con un sofà rosso e dei quadri alle pareti.

Tina se ne ricordava ancora uno: dentro un grande paesaggio giallo un grande uomo nero, vestito d'un corsetto bianco, con dei calzoni larghi come una sottana, fuggiva sopra un cavallo nero, e il cavallo invece delle briglie aveva due larghe strisce ricamate di fiori. Ella tornava spesso a contemplarlo dentro quella cornice dorata nella penombra del salotto pieno di poltroncine coperte di piccoli tovaglioli merlettati. Ma invece di mangiare nella cucina, quando c'era lui, desinavano in un'altra saletta a una tavola rotonda, con due credenziere al muro colme di piatti e di vasi. Allora Tina era andata anche a scuola. La mattina sulle otto la vestivano bene, le mettevano qualche cosa nel panierino per la colazione e la conducevano da due signore, che tenevano presso di sè altre fanciulle. Era stata quella l'epoca migliore della sua vita. Tina non aveva voglia di studiare, ma quelle due maestre non insistevano troppo per costringerla: invece le avevano insegnato la dottrina cristiana e l'avevano condotta alla cresima con un bel nastro annodato dietro la fronte.

La domenica, uscendo a spasso con la mamma, le pareva che la gente si voltasse a guardarle, ma anche la mamma era bella, e la piccina ne insuperbiva come se tutte quelle occhiate fossero di ammirazione. Però non capiva come quel signore non solo ricusasse sempre di accompagnarle, ma ad ogni incontro fingesse di non riconoscerle: anzi sfuggendo alla mano della mamma, ella una volta gli era corsa incontro per dargli un bacio.

Tutto il gruppo dei signori vicino a lui aveva riso, mentre egli invece si faceva scuro, e la mamma pallida, imbarazzata, non sapeva come richiamarla. Tornarono subito a casa: la mamma pianse nello sgridarla, pareva avvilita, spaventata.

—Perchè mai facesti così?—seguitava ad esclamare guardando la vecchia serva, che questa volta divideva le apprensioni della padrona.

Tina non lo sapeva, ma finalmente potè comprendere che le altre due temevano di restare sole, senza le solite visite di quel signore. Invece non ne fu nulla: quel signore tornò la sera dopo e non si lagnò dell'incontro: la piccina si sentiva trionfante, benchè non osasse dimostrarlo vedendo sotto l'allegria della mamma lo stesso sgomento di prima.

Poi la mamma era troppo buona con lei.

In quel tempo ella non si lagnava più di quei dolori: era rifiorita, aveva un sorriso dolce, che rallegrava la bambina. Senza pensare a nulla, con un cassetto pieno di giocattoli, Tina cresceva dentro la gioia di un capriccio: non le insegnavano nulla, la mamma la conduceva raramente in chiesa, non le parlava mai del babbo o dell'avvenire. Le tristezze di altre volte erano dissipate: certi giorni la mamma insisteva perchè si facesse venire qualche voglia, soltanto per il piacere di soddisfarla. Adesso la casa era piena di roba: vi erano molti armadi, dei comò, in cucina tutto era aumentato: si beveva sempre del vino buono, e a pranzo raramente mancava il dolce.

Un'estate la mamma andò con lei e la vecchia serva ai bagni di San
Casciano.

Ma questa felicità non aveva durato.

Tina aveva veduto entrare in casa un bel soldato con una sciabola lunga e gli speroni, che gli tinnivano ai tacchi: e veniva sempre di sera, e la mamma e la serva si raccomandavano che ella non dicesse niente con alcuno, specialmente col vecchio signore. Ma la serva riceveva male il soldato, se capitava quando la mamma era fuori: Tina stessa, così piccola, sentiva per lui una ripugnanza invincibile. La vita in casa era mutata: fra la mamma e la serva si tenevano sempre il broncio, ma era la mamma che non osava rivoltarsi alle parole e ai gesti quasi sprezzanti dell'altra: entrambe vivevano in una continua agitazione. Tina se ne accorgeva a certi segni, alle dispute della mamma per la mancanza di danaro, o alla sua aspettazione febbrile per le visite di quell'altro signore vecchio, al quale adesso correva incontro senza alcun riguardo di essere veduta, quando egli la baciava.

Una volta la mamma invitò a cena il soldato, malgrado l'ostinata opposizione della serva. Tina aveva udita tutta la loro lunga lite nel giorno, e aveva capito che la mamma voleva più bene al soldato che al vecchio signore: la serva aveva persino minacciato di andarsene, perchè non si poteva, secondo lei, tirare innanzi così: era una pazzia, una stupidaggine.

—Vi farete mangiare viva da quel cialtrone di sergente.

—Non dire così.

—Pensate piuttosto alla vostra bambina.

La mamma era scoppiata a piangere e Tina aveva fatto altrettanto, correndo ad abbracciarla.

Le due deboli creature strettamente allacciate confondevano le lagrime sotto lo sguardo vuoto della serva, che finì anch'essa col commuoversi. Pareva un giudice: anche la piccina lo sentiva, e con l'istinto seduttore della natura femminile lasciò la mamma per farle una carezza.

—Tu sei cattiva,—disse col suo fare importante, mentre invece le pigliava una mano per condurla alla mamma.

—Cuore mio, cuore mio!

La pace fu conclusa. Tina aveva trionfato ottenendo persino, contro ogni opposizione della serva, che voleva metterla a letto più presto, di cenare fra la mamma e il bel soldato con la promessa di non parlarne ad alcuno.

Ma invece di divertirsi si era annoiata, perchè nè l'uno nè l'altra le badavano: parevano assorti in un segreto, che si comunicavano a parole sommesse; qualche volta Tina vedeva la mamma stringere sotto la tovaglia la mano al soldato, il quale sorrideva arricciandosi i baffi neri.

Ella preferiva il vecchio, che la prendeva sulle ginocchia e dandole un bacio diceva con un sorriso buono:

—Portalo alla mamma.

* * *

Ma quella volta che tornando a casa trovò la mamma con un occhio pesto, sul letto, in preda a violente convulsioni, era stato il primo grande dolore della sua vita.

Allora non potè sapere che cosa fosse accaduto, perchè la vecchia serva accigliata non disse nulla e la mamma dopo non si lagnò della propria disgrazia che con frasi tronche, piangendo come una bambina sotto i rimproveri freddi dell'altra. Dai loro alterchi ella comprese soltanto che la mamma era stata bastonata dal soldato e che quel vecchio signore non tornerebbe più: ma siccome il soldato tornò, la serva volle andarsene.

Anche Tina le si raccomandava.

La vecchia rimase dura.

—Che cosa posso più fare qui?—ripeteva.—Voi non avete giudizio, vi siete rovinata per quel cialtrone di sergente, che un giorno o l'altro bastonerà anche me e la piccina.

—No,—singhiozzava la mamma,—non è cattivo come credi.

—Allora tenetevelo, ma farete finire male anche quella lì.

Questa volta Tina vide il terrore dipinto sul viso della mamma.

La sua piccola anima si sentiva crollare qualche cosa d'intorno, la mamma disfatta nel proprio dolore si dimenticava già di lei, la vecchia se ne andava, quel signore non verrebbe più.

E solamente il soldato era la causa di tutto: adesso si ricordava che quella sera a cena egli da solo si era mangiato quasi tutto, ordinando dell'altro vino, anche la mamma aveva paura di lui, che non fosse contento: lo spiava negli occhi con un sorriso incerto.

La vecchia consentì ancora a rimanere nella casa per otto giorni.

Quella fu una triste settimana: il soldato fu buono, perchè nell'accompagnarlo alla porta la mamma sembrava felice, ma la serva non volle vederlo, nè udirne parlare; insisteva sempre sulla stessa cosa, che bisognava vendere i mobili, mentre la mamma diceva di no.

Tina smise di andare a scuola: la mamma stava chiusa nella propria camera, la serva in cucina, quando si riunivano per mangiare la mamma si metteva a piangere.

L'ultimo giorno la vecchia disse:

—Se volesse smettere, resto con voi.

—Sì mamma!—esclamò Tina.

Ma l'altra ostinata rispondeva:

—Perchè mi vuoi affliggere così? Senza di te non potrò andare avanti.

—Non ci andreste ugualmente, egli vi mangerà tutto. Le cose bisogna capirle: con quell'altro avreste fatto sempre la signora.

Poi le si mise a sedere in faccia; e accennando a Tina seguitò:

—Che cosa farete di lei?

—Vedrai che riuscirò a tirarla su.

—Niente: la bambina sarebbe invece fortunata se morisse. Voi siete di quelle che finiscono nemmeno si sa come.

—Credi tu che non le voglia bene?

Tina vide la faccia della vecchia incresparsi.

—Io non avrei fatto così con mia figlia.

Quindi andò per l'ultima volta in cucina a lavare i piatti.

* * *

Anche adesso Tina vedeva limpidamente nella memoria la figura secca e taciturna della vecchia, che aveva protetto per qualche tempo la sua infanzia. Era ancora viva? Era morta? Nel disordine e nella miseria sempre più triste della loro vita nè ella nè la mamma avevano più cercato d'incontrarla: erano passate per altre case, vissute fra altre donne in una intimità stretta o lacerata da nuovi bisogni, abituandosi a tutto con quella indifferenza, che cresce dall'abbandono delle speranze e dalla rinunzia ad ogni proposito fisso.

Eppure non erano state molto infelici.

La mamma, così facilmente eccitabile al riso e alle lagrime, dimenticava presto per sognare ancora dietro qualche nuova combinazione: la sua gioia era effimera come la sua disperazione, mentre discendendo nel tramonto degli anni e della bellezza vi si rassegnava con una crescente passione pel benessere fisico, il mangiare, il bere, lo stare caldi, senza preoccupazione di vanità o di avvenire. Ma poi quel suo male si era aggravato. Da principio non erano che spasimi acuti e intermittenti, poi vennero le convulsioni, l'insonnia, i disturbi di stomaco, il male di testa continuo, accanito, e un indebolimento di tutta la persona, che le impediva quasi del pari il camminare e lo stare seduta. I medici parlarono di un guasto all'utero e di una operazione chirurgica, gravissima ed indispensabile; ella spaventata ricusò, e nella lusinga di guarire altrimenti cessò a poco a poco di essere donna. Quindi ebbe ancora qualche rifioritura, mesi, nei quali pareva risorgere più bella: la sua fisonomia si era spiritualizzata e il suo carattere fatto più buono. Quel sergente, tramutato di guarnigione, era disparso per sempre senza che ella se ne accorgesse, ma quel vecchio signore non volle più ritornare.

D'allora il problema della vita non aveva più mutato, ripetendosi ogni mattina con le crudeli difficoltà di una miseria senza parenti e senza mestiere: ella non sapeva lavorare, e pur non odiando il lavoro stentava a concepirne uno, che potesse dar loro da mangiare. A chi rivolgersi? Che fare? Non sapeva che resistere nella miseria senza nè rassegnazioni, nè ribellioni; la sua vanità di bella donna, mantenuta nell'agiatezza da una qualche passione di uomo, al quale mostrava sinceramente una tenera gratitudine, era già perita in quella pronta rovina, non lasciandole che una felicità timida e servizievole verso chiunque le soprastasse. Ma prediligeva istintivamente le donne giovani, che si avviavano al lusso, quasi dalla loro vita le ritornassero quei giorni felici quando si abbandonava anch'essa all'incanto di un sogno, come i fanciulli fanno nei primi bagni sulle correntie dei ruscelli.

* * *

Tina aveva frequentato anche i teatri.

La mamma v'era entrata dietro una sarta a prestare sul palco scenico una infinità di servizi senza titolo alle attrici, che prediligevano la garbatezza de' suoi modi: poi una di loro, salita improvvisamente all'onore della carrozza per la passione di un marchese, aveva voluto prendere Tina a compagna, vestendola come una pupattola. Ma l'attrice, un bel giorno, era tornata sul palco scenico. Un'altra aveva offerto alla signora Adelaide di portarla seco come cameriera, purchè mettesse la fanciulla in qualche orfanotrofio, ove l'avrebbero educata meglio che in quel vagabondaggio di teatro in teatro, attraverso i casi di tutte le miserie e di tutti i vizi. Era un'attrice ancora giovane, che faceva da madre nobile, donna di buon cuore, al sicuro in una certa agiatezza. Sciaguratamente un'avventura venne a troncare anche questa speranza. Una sera mancò di sopra ad una cassa una spilla d'oro depostavi da un attore nel momento di entrare in scena: più d'uno aveva veduto, v'erano donne, uomini, inservienti e visitatori, che andavano e venivano; la spilla non fu più trovata, i sospetti fioccarono, il pettegolezzo dilagò, e la signora Adelaide ingiustamente fu creduta colpevole, quindi, licenziata dal servizio. Questa prima caduta ne determinò altre: un avvilimento non mai prima sentito peggiorò la nuova miseria, quei dolori d'utero si fecero più frequenti ed atroci, compiendo di fiaccarle la volontà di vivere, che nei poveri è la sola forza. Anche Tina, già grandicella, somigliava in questo difetto alla mamma: era buona, faceva tutto quanto le si domandava, ma da sola non sarebbe arrivata a nulla: fors'anche per questa debolezza si amavano maggiormente, sorreggendosi l'una l'altra senza lasciarsi mai.

Ed erano uno strano spettacolo queste due donne, che uscivano, rientravano, facevano tutto insieme: quando la mamma era ammalata, siccome non avevano quattrini per chiamare i medici, che d'altronde sarebbero stati inutili, Tina si metteva al suo capezzale finchè non si fosse nuovamente alzata: mangiavano se lo potevano, ma essendo simpatiche, capitava loro sempre un qualche aiuto inatteso.

In quella apparente indifferenza di tutto sognavano però con una ingenuità di bambine, illuminata dai ricordi della loro bella vita tramontata.

Ed era sempre lo stesso sogno, che discendeva sulle loro anime dall'alto, come nella luce di un nuovo mattino. La mamma, oramai senza speranze per se stessa, riportava nella vita appena sbocciata della figlia tutti i fantasmi di fortuna, che avevano attraversato la propria. Nella oscurità morale della sua coscienza ella non credeva di aver vissuto troppo male, nè di essere una cattiva madre, giacchè la regola della vita era per lei nella vita stessa, la quale trionfa di tutte le resistenze nel mistero del caso favorevole agli uni e avverso agli altri. Ovunque e sempre aveva visto le medesime cose e le stesse donne: quelle che riuscivano a conquistare una posizione nel mondo non erano le migliori, ma le più astute, e le grandi signore commettevano gli stessi falli abbandonandosi alle medesime tentazioni delle più povere operaie. Tutta la differenza fra loro derivava dal grado sociale. Vi era fors'anco una virtù vera, di alcune persone, che non sentivano e non avrebbero potuto sentire ciò che faceva per gli altri la bellezza e la felicità della vita.

Ella non credeva e non sapeva più in là di questo, giudicandosi buona per non avere mai voluto gratuitamente il male di nessuno, ed accusando il destino di tutto quanto aveva dovuto fare nel disordine della propria esistenza.

Quindi sognava una vincita al lotto o un altro vecchio buono come quel signore, che le accogliesse nella propria casa; ella, la mamma, sarebbe diventata la sua governante, e Tina avrebbe potuto educarsi meglio. Quasi sempre il sogno si fermava lì, perchè Tina toccava appena i dodici anni. Infatti alla fanciulla mancava ogni istruzione, benchè avesse imparato quasi misteriosamente a leggere e a scrivere fra quella gente così varia, povera e cupida, che rinnovava ogni giorno gli stessi espedienti per la conquista della fortuna o della sua illusione. Una esperienza breve ma singolarmente ricca la rendeva già una fanciulletta simpatica e servizievole, capace d'intendere a volo le difficoltà di un caso, nel quale bisognava tacere o ritirarsi, pronta a cogliere qualunque simpatia, come soltanto i ragazzi poveri sanno. Ma anche questa non era in lei che una abilità istintiva, affinata dal bisogno, senza che il suo cuore se ne rendesse ben conto.

La fanciulla cresciuta in quei bassi fondi, così pericolosi alla innocenza, serbava ancora il proprio incanto mattinale, benchè sapesse tutto quanto si cerca indarno di nascondere alle prime curiosità dell'anima come una malattia vergognosa. E invece accade spesso che i fanciulli passano da contrabbandieri i confini abbandonandosi a scorrerie, dalle quali tornano con la febbre nel sangue: hanno imparato senza provare, sognato invece di vedere; quindi la loro coscienza si appanna e il pensiero si perverte; diventano cinici essendo ancora vergini, finchè, sfioriti per sempre, non si ubbriachino all'olezzo del primo fiore raccolto sulla via, già sgualcito chissà da quante mani.

* * *

Tina aveva appreso le miserie e le colpe della vita dallo spettacolo continuo al quale doveva assistere per trarre i mezzi di vivere.

Fra quella gente gittata nell'equivoco di tutte le avventure o appiattata pazientemente nell'agguato di una continua frode, le parole erano spesso più sincere dei fatti, e i bambini partecipavano ad ogni scena, come piccoli attori già soggetti alle necessità del teatro, ricevendo più busse che baci, soffrendo talvolta la fame anche nelle gozzoviglie, ove gli altri si ubbriacavano.

Tina stessa aveva dovuto provarlo, prima di essere accolta come apprendista da quella bustaia.

Poichè alla mamma era capitato per un'estate di villeggiare presso una famiglia di signori, Tina entrò come servetta presso due vecchie zitellone, che vivevano di una piccola rendita fabbricando fiori di tela per le chiese. Il servizio non sarebbe stato troppo greve, ma l'umore delle padrone era così tristo che la fanciulletta ne sofferse fino ad ammalarsi. Le pareva di essere prigioniera in quella casa silenziosa, ove nessuno entrava mai a portare dal di fuori una parola, e le due vecchie, invece d'insegnarle, si guardavano l'una l'altra quasi con muto stupore, rifacendo tutto quanto ella aveva fatto.

Quindi si nascondeva disperatamente negli angoli a piangere col cuore gonfio. Mattina e sera, le due vecchie prima di uscire per andare in chiesa chiudevano tutte le imposte, tutti gli usci e, girando a doppia mandata la chiave nella toppa, le ordinavano severamente di non aprire le finestre, di non fare rumore. Allora la fanciulletta, invasa da una strana paura, avrebbe voluto gridare al soccorso, gittandosi nelle braccia di qualcuno che venisse a liberarla. Ma la casa era tutta chiusa. Ella restava quindi nella saletta d'ingresso sopra una panca a pensare nel proprio abbandono, finchè si metteva a piangere nuovamente, con l'orecchio teso ai rumori della scala, come se dei fantasmi salissero spaventosamente insino alla sua porta. La sua immaginazione esasperata dal lungo patimento tremava dinanzi a misteriose figure, sotto certi soffi freddi, che le gelavano tutto il sangue, mentre quella saletta a poco a poco si mutava in un sotterraneo di prigione, dalla quale non sarebbe più uscita.

La mamma non le aveva ancora scritto. Dov'era? Che cosa le era accaduto?

Un mattino volle andarsene senza sapere dove si sarebbe rifugiata, ma esse non lo permisero, avendo promesso di custodirla sino al ritorno della mamma nel mese di ottobre; e siccome Tina insisteva, la più vecchia la colpì sulla testa col regolo di ferro, che serviva a tagliare la carta dei fiori.

La fanciulla soffocata dallo spavento tacque.

Fortunatamente la mamma tornò prima, ma più ammalata; quando venne a riprenderla, Tina non era più che un'ombra.

—Che cosa hai?—chiese commossa:—Sei stata male?

Le due vecchie guardavano aspettando la risposta.

—Non ti hanno nemmeno dato da mangiare? dimmelo.

La fanciulla tacque ancora.

* * *

Seduta sul letto, coi capelli mezzo disciolti, Tina pensava.

La mamma rientrò nella camera; aveva già preparato il caffè col latte.

—La signora Veronica mi ha chiesto due lire in prestito: ho fatto male a dargliele? I danari sono tuoi.

—No, mamma.

Tina era ancora più pallida: quel riposo tormentato della notte, anzichè rifarle le forze, aveva finito col mettere nella sua debolezza un'ultima prostrazione: vedendola un'altra volta allungarsi sul letto la mamma disse:

—Non ti alzi?

—Mi alzerò.

—Io avevo pensato che avresti bisogno di un paio di camice, di un abito, delle scarpe, ma non ci restano più che dodici lire. Ne ho dato due per acconto anche al fornaio: che cosa ne pensi?

—Come vuoi comprare tanta roba con così poco?

—Capisco anch'io.

E la ragazza sentì che l'attacco ricominciava. Quel piccolo dramma della notte non le si era ancora appannato nella coscienza, che già la vita glielo ripresentava con la solita inesorabile insistenza. Si guardarono. La ragazza conosceva troppo bene la mamma per credere a tutto quello che diceva: probabilmente non le rimanevano nemmeno quelle dodici lire, perchè doveva averle spese in altro che nel pranzo della giornata. Poi era golosa: non lo negava nemmeno, ma cercava una scusa a questa ultima debolezza nell'esaurimento cagionatole da quel lungo male.

La signora Veronica sopraggiunse per dire di aver parlato nelle scale con le Arrighi, e che nessuno si era accorto di nulla la sera innanzi.

—Si vede che è un signore intelligente: un altro forse nell'andarsene non avrebbe badato più che tanto, perchè gli uomini dopo sono tutti così. Ho alzato Bettina, sapete…

—Portatemela!—esclamò Tina.

—Alzatevi voi piuttosto e venite da me. Abbiamo combinato con la mamma di cucinare insieme: ho trovato degli asparagi nella bottega della Carlotta, li faremo col burro, una delizia che ci costerà poco: e per voi, Tina, c'è una sorpresa. Alzatevi dunque: debbono essere le nove, abbiamo una magnifica giornata di sole.

—Ma come si fa ad uscire di giorno così vestite?…

—Aspettate, aspettate, tutto verrà poi: che diavolo! Credete che la possa durare così, quando si è giovani?

Appena Tina fu alzata, ridivenne più melanconica. Nella casa c'era un po' di tramestìo; le due vecchie si davano da fare per il pranzo, perchè volevano averlo pronto a mezzogiorno. Le porte dei due appartamenti rimanevano aperte. Tina prese il caffè col latte bagnandovi dentro una pagnottella, poi tornò nella camera per ravviarsi i capelli con un mozzicone di pettine. Siccome la mammella le doleva ancora lievemente, si ricordò il sogno della rosa, che quell'uomo giovane le aveva piantato con tutto il gambo dentro il capezzolo facendone uscire goccia a goccia il sangue e la vita. Era ancora così pallida, cogli occhi stanchi, cerchiati dalla stessa ombra turchiniccia. E il sogno la riprendeva. Lentamente si sbottonò il corsetto come per cercare la ferita, mentre le pareva di essere un'altra volta seduta sulla porta di quella chiesa, nella quale la gente entrava a fiotti. Infatti quel giorno era domenica. Così seduta, con la mano sulla mammella, quasi nell'atto di arrestarne il sangue, guardava la propria immagine con un sorriso simile ad un brivido. Qualunque cosa potesse ancora accaderle, ella era già ferita: ma perchè quell'uomo le aveva piantato una rosa rossa nella mammella?

Invano Tina cercava di comprendere il significato di questo sogno non ancora dissipato nel mattino: tuttavia non pensò di parlarne colla mamma per una ripugnanza, che le era subito venuta appena uscito quel signore.

Una paura aveva sconvolto la sua piccola anima, passandole come un vento freddo le carni.

Ma Tina riconobbe il passo della signora Veronica nella cucina:

—Ho di già bollito gli asparagi,—questa disse dall'uscio:—Ebbene, Tina, è meglio parlarne subito, perchè la cosa riesca. Io e la mamma avevamo pensato a fare un piatto dolce: volete scegliere quello che so fare benissimo, un timballo con le bucce dei piselli cotte e passate allo staccio? I piselli li abbiamo già per la minestra: la mamma invece sarebbe per un latte alla portoghese. Ditemi voi, Tina, che cosa gradite meglio?

La sua voce era carezzevole, ma i suoi occhi la scrutavano. La fanciulla ebbe daccapo un imbarazzo sotto quello sguardo.

—Come volete, come volete,—disse in fretta:—ma perchè tanta roba?

—Eh! mia cara, se non si mangia nei giorni buoni, non si mangia mai più. Che cosa fate qui sola? Venite di qua.

* * *

Quel pranzo non era poi gran cosa; una minestra asciutta coi piselli, gli asparagi al burro e quattro costolette di agnello con un uguale contorno di piselli, finalmente il timballo colle bucce, un trionfo della signora Veronica, la quale non contribuiva al pranzo se non con l'opera. Ma prestava ancora tutto il servizio da cucina e da tavola.

Le due vecchie avevano discusso lungamente sul vino. La signora Veronica pretendeva di conoscere una cantina, nella quale si comprava un trebbiano dolce, color d'oro, una vera grazia di Dio, per otto soldi al litro; l'altra stava per il Ruffina rosso, frizzante.

Quando Tina e la signora Veronica entrarono, la mamma finiva di appannare nel pane grattugiato le costolette di agnello, attardandosi con atti pigri e delicati.

Tina andò dritta nell'altra camera della piccola Betta, che avendola riconosciuta si era messa a gridare.

—Eccomi, eccomi, Bettina.

Ma questa invece di essere alzata, come aveva detto la mamma, era solamente seduta sul letticciuolo, affagottata in quel vestone rosso, che faceva sembrare anche più pallida la sua faccia gonfia e sformata dalla scrofola. Soltanto gli occhi erano belli, grandi e neri, con le sopracciglia lunghe. In quel momento giocava con un vecchio fazzoletto scuro rivoltandolo ed annodandolo per farne un topo.

—Chi è venuto da te ieri sera?

—Nessuno,—rispose Tina sorridendo.

Bettina aveva quasi nove anni, ma non ne mostrava che sei: la sua fronte sporgente sotto i ciuffi dei capelli, era stranamente pensierosa su quel viso di bimba.

Diede a Tina il topo da tenere, e dopo una pausa, senza guardarla in viso, ricominciò:

—Perchè non sei venuta dopo che quell'uomo se n'è andato?

—Anch'io stavo male: venni pure a portarti il cioccolatino prima di andare a letto.

E per mutare discorso le propose di alzarsi.

—Levati, altrimenti per stare troppo a letto perderai le gambe: non vedi,—seguitava tirandole su il vestone,—come sei diventata? Dà retta: alzati e vieni di là, nella mia camera, intanto che preparano il pranzo.

—Chi ti ha dato i quattrini? L'uomo di questa notte?

—Quale uomo vai sognando?—E la voce le tremava nella menzogna, come se quella bambina potesse avere tutto capito nel dramma appena incominciato la sera innanzi:—Le tue scarpette debbono essere dentro al comodino della mamma; ecco le calze, mettile da te.

—Che cosa mi fai fare nella tua camera?

—Quello che vuoi.

—Ma se non abbiamo niente.

—Ci metteremo al sole.

—Mi fa male: lasciami qui, non ho più voglia di alzarmi.

—Hai ancora mangiato?

—Si.

—Che cosa?

—Chi era?—l'altra rispose bruscamente.

—Un conoscente della mamma,

—Allora me lo avresti detto subito; non è vero…—E gli occhi le si empirono di lagrime; poi un brivido la scosse e con un gesto convulso portò la mano sinistra all'orecchio ammalato.

Tina la guardava senza sapere che fare, ma la bimba, sforzandosi a non piangere, seguitò con accento corrucciato:

—Anche tu mi dici la bugia come la mamma, quando va fuori e mi lascia sola per delle mezze giornate. Ho udito bene la tua mamma ritornare su per le scale con quell'altro, un uomo, che camminava anche lui in punta di piedi. Io riconosco il passo della gente per le scale; la mia mamma si era messa all'uscio. Chi era? dimmelo.

—Che cosa può importartene?

—Anche tu andrai via.

—Sei gelosa di me?—disse Tina sorridendo,

—No, no,—stridè stizzosamente:—non lo sono più, perchè non mi vuoi più bene.

—Come non me lo hai detto subito, ieri sera, quando sono venuta a portarti il cioccolatino?

Questa domanda imbarazzò la bambina.

Una ruga le si disegnò nel mezzo della fronte, riprese il topo dalle mani di Tina e tacque, stringendo la bocca come per non parlare più. Tina rimaneva perplessa davanti a questa curiosità ostinata.

—Fra poco ti alzerai; almeno per mangiare con noi.

L'altra non rispose.

—Non vuoi nemmeno mangiare con me? Che cosa ti ho fatto? Sono venuta anche ieri sera subito,—le sfuggì imprudentemente:—io non mi dimentico mai di te, che invece fai sempre la capricciosa. Stamane non mi hai ancora dato un bacio: se è così, vuol dire che me ne vado.

Infatti si era alzata, ma due grosse lagrime si staccavano silenziosamente dalle lunghe palpebre di Bettina.

L'altra le si gettò sopra, prendendole con circospezione la testa e coprendole di baci la fronte:

—Cattiva, cattiva!—seguitava,—che mi vuole mandare via e mi nega un bacio, mentre io penso sempre a lei. Quest'oggi comando io, voglio che ti alzi per pranzare con noi.

—A un patto.

—Quale?

—Chi era?

—L'orco,—ribattè Tina, ferita al cuore da questa insistenza assurda; e rientrò nella cucina.

* * *

Avevano quasi finito di pranzare.

Per la finestra aperta della cucina entrava un bel raggio di sole primaverile, mentre nell'altra camera quasi buia la piccola Betta biascicava ancora la poca porzione di timballo, che la mamma le aveva recato dentro al piatto stesso degli asparagi per fare un solo viaggio. Ella diceva così, e grassa, pesante com'era, quella minima distanza le sembrava un vero viaggio.

Ma Betta aveva ricevuto queste insolite leccornie senza fiatare, dispettosa in cuor suo di capire che fossero dovute a qualche fortuna di Tina, la quale anch'essa l'aveva abbandonata con quell'ultima cattiva risposta.

Invece nella cucina la conversazione finiva facendosi più lenta in quella prima beata soddisfazione di un pranzo cucinato senza i soliti risparmi. La sorpresa preparata dalla signora Veronica per Tina non aveva però avuto il trionfo, che si poteva sperarne, giacchè la ragazza, davanti alla novità di una frittata alla confettura, se n'era sentita anticipatamente disgustata.

—Capisco,—diceva la signora Veronica col suo fare importante,—la vostra impressione: vi pare che con l'olio lo zucchero e i pochi canditi non leghino. Anzitutto i canditi vanno sempre bene, come i baci.

—I baci,—ripetè Tina sorridendo.

—Già. Alla vostra età, fresca come siete, volendo, attirereste i baci come l'aleatico attira le vespe: basta lasciarseli dare da coloro, che avendone maggiore voglia, sono nel caso di cavarsela anche se un po' caruccia, perchè da povera ragazza stracciata si diventi presto una signora di quelle alle quali gli uomini corrono dietro, quando si sono ben seccati con le altre. Come mai i signori si divertirebbero con le loro dame, che hanno da pensare ognuna alla propria famiglia o farsi riguardo di cento cose prima di concedere un appuntamento?

Tina e la mamma ascoltavano sorprese da quel tono professorale, che sembrava compiere il trionfo della signora Veronica sulla fine di quel pranzo, realmente da lei sola voluto e preparato. Con un gomito sulla tavola, gli occhi accesi, il mento sul dosso della mano sinistra, ella parlava assaporando quasi le parole. La superiorità era così palese, che le altre due non tentarono nemmeno di resistere.

—Non volete prendere il caffè? Andrei io giù a farmene riempire una mezza cocoma al Leoncino d'oro,—disse la mamma.

—No, bisogna saper resistere: oggi abbiamo fatto abbastanza baldoria da pari nostre: aspettiamo qualche altra occasione vicina. Perchè non vicina? Io lo credo. E poi, vedete, quando si è veramente mangiato, come oggi, mentre gli altri giorni facciamo le finte di mangiare tanto per mantenerci vive, il caffè solo non basta. Ci vorrebbe anche il bicchierino di cognac. Se sommate tutto questo, ne vien fuori un orrore. Ma era proprio così brutto, Tina, quel signore?—le si rivolse improvvisamente.

La fanciulla trasalì.

—No,—intervenne la mamma:—non era una bellezza, ma nemmeno un brutto uomo.

—Voi non siete competente in questo caso, perchè la prima volta l'uomo fa una impressione assolutamente diversa da ogni altra. Lo domandavo appunto a Tina. Ma quando l'uomo non piace, ecco. Non vi piaceva, Tina?

—No.

—Vedete!—esclamò trionfalmente.

Ma la mamma, che temeva questa piega del discorso, si affrettò a rispondere, con quel suo accento strascicato:

—Non si può sempre avere quello che piace…—ma si corresse subito:—specialmente quando si comincia. Negli uomini io ho sempre preferito le maniere alla faccia: non è forse vero? Alla faccia, se non è di mostro, ci si abitua, ma ai cattivi modi no. Ci vuole della educazione e del buon cuore; quindi i giovani non sono sempre i migliori per una ragazza che abbia bisogno.

—I giovani ci sciupano e generalmente hanno poco cuore.

—Ve n'è anche fra essi qualcuno: quello di ieri sera non lo avevo scelto male. E badate che Tina non si era decisa che all'ultimo momento, perchè aveva fame anche lei come me. Non mi pesa più il confessarlo. Quel signore mi parve d'indovinarlo al modo di camminare, poi avevo visto i suoi occhi alla luce di un lampione.

—Infine ha agito bene: se tornerà…

—Certamente.

—Avete ragione. Gli uomini vogliono sempre rivedere la ragazza dopo una simile scena, e spesso finiscono con l'innamorarsi. Ma bisogna stare attente a non perdersi: i protettori sono più difficili a scegliersi dei mariti. E quando si hanno,—disse alla signora Adelaide con accento lieve di rimprovero,—tutto sta a tenerli.

La mamma sobbalzò sotto la puntura, ma la signora Veronica, come se già avesse studiata la propria parte, si piegò verso Tina e, fissandola con una certa singolarità, riprese:

—Ragazza mia…

A questo attacco Tina volse la testa alla porta dell'altra camera, nella quale Betta curiosissima, come tutti i solitari abbandonati, doveva ascoltare; ma non ebbe il coraggio di alzarsi per chiuderla; poi si sentiva riprendere dalla stessa lassitudine della sera innanzi, quando aveva finalmente ceduto alle istanze della mamma.

—Se vi andate a guardare nello specchio, vedrete come state bene adesso. Siete rifiorita; quel signore di ieri sera non vi riconoscerebbe più. Ecco come dovreste essere sempre per avere tutta la vostra forza, perchè, credetemelo bene, è inutile essere bella e giovane se tutto questo non deve servire a cavarci la fame. Date retta: si campa una volta sola, e la gioventù passa presto; dopo, vedete come si resta quando non si è saputo profittare del tempo buono. Guardate noi due. Io fui veramente disgraziata sposando quell'uomo, ma adesso non giova lagnarsene. Vi pare che discorro nel vostro interesse? perchè io, per me, non ci ho troppo sugo in tutto questo.

—Quello che ti ho sempre detto io, figlia mia!

—Ma è il modo di dirlo,—interruppe l'altra:—Io non pretendo di convincere nessuno, espongo solamente quello che ho visto e che so. Ecco, del resto, ognuno fa come vuole. Tina è libera anche lei, ma siccome le vogliamo bene, bisogna mostrarle i pericoli. Io ve lo dico subito, ragazza mia, che una donna giovine, anche se non molto bella, riesce a tutto: l'abilità consiste nello scegliere la strada, anzi nel sapervi camminare, giacchè tutte conducono egualmente a Roma. Vi sposate, pigliate marito, magari un buon diavolo quando vi volete bene reciprocamente: che cos'è? Date retta, vi hanno insegnato da ragazza che la sola via vera è il matrimonio, la famiglia, i figli… Domine Iddio! non è vero niente: invece avete dato una zuccata nel muro, tutto vi va a rovescio, arrivano la miseria, la malattia, egli muore e se non avete presa la sua malattia, è un bell'affare, ma vi restano i figli ammalati. Il mio caso. Avete visto eh? Vostra madre era più bella di me, non importa, è finita egualmente. Ci vuole testa al mondo, ragazza mia, il resto sono chiacchiere.

—Ma se tutto riesce sempre male a ogni modo…—obbiettò Tina, trascinata a poco a poco nella confidenza di quella conversazione.

—Quando manca la testa: la differenza è lì. Noi abbiamo un tesoro, almeno gli uomini, non so perchè, gli danno tale importanza; io per conto mio,—aggiunse con un sorriso,—non ho mai trovato in loro nessun altro tesoro. Quindi bisogna giovarsene, ragazza mia. C'è stata chi diventò perfino imperatrice; invece lo si butta facilmente come se non valesse nulla.

—Allora,—scattò Tina con un impeto subitaneo d'irritazione,—perchè andar cercando nella strada a chi darlo?

—Se il bisogno ci lasciasse scegliere…—mormorò umilmente la mamma, che la fatica della digestione cominciava a rendere melanconica.

—Non è questo, lasciate dire a me. La fortuna non si decide mai la prima volta, ecco perchè se avete dovuto cedere, avete ceduto male.

—Cedere no!—proruppe la fanciulla.

La signora Veronica finse di non badare a queste parole.

—Anche questo non significherebbe nulla. La mamma ha ragione, non si può sempre scegliere, specialmente quando si è arrivati a un certo punto. L'importante viene dopo, nella scelta dell'uomo, che può fare la nostra fortuna. C'è sempre, credetemelo, costui: siamo noi donne, che abbiamo torto; il minchione, al quale far credere tutto, càpita a ogni donna. Sappiatelo prendere secondo giudizio, e la fortuna è fatta.

—Come?

—Come vorrete: potete diventare moglie o magari non volerlo diventare, secondo i casi.

—Non vedi, figlia mia,—disse la mamma con umiltà anche più bassa,—che se io avessi saputo fare, adesso non ci troveremmo così?

Ma Tina si sentiva salire dentro la rivolta. Senza intendere bene le varie tonalità di quella suggestione, una ripugnanza istintiva gliene svelava il tristo segreto. Si voleva daccapo trascinarla, travolgerla con tutta la sua giovinezza in un sacrificio, del quale non provava che l'oscuro orrore. Ella non aveva una nozione esatta del proprio valore come fanciulla ancora intatta, nè alcuna altra delle idealità così frequenti nelle vergini cresciute fra le pareti domestiche, e tuttavia qualche cosa si ribellava in lei a certe parole, come se un contatto doloroso le facesse sobbalzare tutti i nervi. Attese, le due donne si consultarono con una occhiata.

La signora Veronica si versò dalla boccia un mezzo bicchiere di vino.

—Lasciate stare: perchè Tina non avrebbe ragione? Essa aspetta nella confidenza della propria età, non è vero, ragazza? Voi attendete uno che vi ami per voi stessa e vi sposi, giacchè non vi siete ancora voi stessa innamorata: solamente la cosa è un po' difficile.

—Difficile!—esclamò la mamma dolorosamente:—dite impossibile. Chi volete che venga a cercarvi in questa miseria?

—Infatti bisogna essere in vista: capisco, siete ad un punto tremendo, dal quale non si può andare avanti. Gli uomini rifuggono dalla miseria, questo è certo. Se voi, Tina, foste ben vestita e poteste fare un giro in via Calzaioli, molti signori vi verrebbero dietro, invece se ci passate così, nessuno vi guarderà. Quante ragazze povere finiscono male solamente per questo!

—Io lo dico a voi, signora Veronica,—seguitò l'altra,—perchè oramai siete vecchia come me e potete capire: che cosa volete che ci capiti più se duriamo così? Io sono sempre ammalata: dovrò andare all'ospedale per morirci, se si degneranno di accogliermi; lei resterà sola. Non ho potuto insegnarle niente, un mestiere, metterla per una strada qualunque: adesso come fare? Supponete tutto; che la bustaia la ripigli; non abbiamo un vestito da metterle indosso, è senza scarpe, in due possediamo tre camice rotte sbrandellate. Anche oggi Tina non ha che il corsetto.

La ragazza arrossì.

—E ieri sera?—chiese ironicamente la signora Veronica.

—Lo vedi, figlia mia, che te ne vergogni, mentre non ne hai colpa. Ti accadrebbe altrettanto se ti trovassero una casa, ove fare la serva; non avresti gli abiti per presentarti e non sai fare nulla. Non stiri, tieni a mala pena l'ago fra le dita, non sai cucinare, e come avresti potuto impararlo a casa mia? Che cosa speri dunque, bellina come sei? Che qualcuno s'innamori e ti sposi? Certamente può accadere, ma chi? Un signore, che ti dia da mangiare, no certo: come potresti conoscerlo, tu che non esci di casa? Sarà invece un altro povero diavolo come te, uno di coloro che pigliano moglie non avendo nemmeno il letto. Ce ne sono tanti, e dopo non si sa come mangiare; poi vengono i figli, e allora bisogna fare per loro quello che non si è voluto fare per se stessi.

—Questo mi pare giusto, ma allora è troppo tardi. Una donna, che ha marito, trova più difficilmente di una ragazza il protettore: che volete? I mariti sono spesso bestiali, e gli altri non vogliono averci briga.

—Ammettete pure tutto, ma adesso come se ne esce? ne avete visto poche delle donne a far fortuna. Avete il marito, i figli, vi siete già messa a posto da voi stessa, ed è quasi impossibile mutare: invece da ragazze tutto vi deve ancora accadere.

—Se fossimo ragazze adesso io e voi,—concluse la signora Veronica sorridendo,—eh! vi dico io che faremmo presto fortuna colla nostra esperienza.

Tina si alzò perchè il dialogo pareva finito. Il suo volto era tornato pallido. Betta dall'altra camera non aveva ancora fatto il più piccolo rumore. La piccina aveva ascoltato e capito tutto? Tina se lo chiese con un inquieto sentimento di vergogna come dianzi, quando voleva chiudere la porta. La brutalità di quelle spiegazioni l'aveva quasi soffocata, ma nella miseria avviene sempre così: non si può essere delicati.

Era andata alla finestra.

Qualcuno passava già vestito a festa, il cielo era vibrante di serenità, un sole di primavera accendeva sorrisi dappertutto, sui tetti, sulle gronde, sui muri, sulle selci. Altre donne stavano alla finestra; incontrò i loro sguardi e le parve che la scrutassero.

—Vedete che bella giornata oggi, bisognerebbe poter uscire,—le disse la signora Veronica dietro la schiena.

—Perchè pensarci? non si può.

—Io ho un abito ancora in buono stato, ma a voi non istà bene, non potrei prestarvi che la camicia, il meno necessario, perchè non si vede. Invece sono le scarpe, i vestiti, che più occorrono. Bisognerà pure decidersi a qualche cosa.

—Che volete?

—Io… niente. È per la vostra mamma che ve lo dico: ma io avrei una idea per aiutarvi.

—Non potevate dirmelo prima?

—A che prò se dipende da voi?

—L'idea della signora Veronica è buona,—disse la mamma,—ma sta a te accettarla. Se dovessi farlo io, non ci penserei, tu però sei libera: per me invece sono vecchia e morirò presto. Non ho più bisogno di gran cosa.

—Ecco!—esclamò la signora Veronica, mostrando loro collo sguardo una donna, che appariva alla finestra d'un secondo piano nella casa quasi di fronte:—quella è felice col suo piccolo impiegato delle ferrovie. Prima in casa il marito e i figli crepavano di fame.

Tina si volse a guardarla. Nel vano della finestra si vedeva la sua testa china sotto un grande mazzo di capelli neri, che le lasciavano scoperta una riga bianca sul collo; e il marito, un omaccione rosso, le stava dietro; tutte le donne affacciate sul vicolo la fissavano con occhiate malevole ma invidiose.

—Prima io andavo qualche volta da lei e lei veniva da me; ma da quando le è capitata la fortuna non mi saluta più,—disse la signora Veronica con accento dispettoso:—Voi non fareste così, Tina; ne sono sicura.

—Ma che volete da me?

—Niente.

E le volse le spalle tornando alla tavola per sparecchiare.

Mamma e figlia rimasero alla finestra; non parlavano, ma la gente cominciando ad uscire da ogni porta del vicolo in abito da festa, dopo il pranzo, le rendeva sempre più malinconiche.

Tutti parevano contenti, qualcuno si voltava dalla strada a parlare colle finestre: si udivano saluti, qualche frase di convegni pel pomeriggio.

La mamma aveva cinto d'un braccio la vita di Tina, premendola con lenta carezza.

—Ti ricordi quella volta che uscimmo a far merenda fuori di porta San Gallo colle Tugnoli? Fu l'anno passato, di primavera come adesso: tu avevi ancora l'abito giallo, io stavo quasi bene. Che bella giornata!

—Quanto danaro avete ancora?—chiese bruscamente la ragazza.

—Uno scudo; dopo, io non so più nulla.

—Volete che io dica di sì?

—Tina mia!

—Ebbene… ma adesso non parlatemene più.

* * *

Verso sera la signora Veronica uscì sul pianerottolo ad incontrare una signora, che saliva abbastanza lesta per le scale: si salutarono entrando senz'altro dalla porta di Tina. Anche la mamma, in agguato da parecchie ore, accorse; Tina invece era tornata presso Betta.

—È la signora Cesarina,—disse la signora Veronica cominciando la presentazione:—e questa è la mamma.

La signora era magra, con tutti i capelli neri e due occhietti rotondi, vividi: vestiva modestamente e mostrava una franchezza, che rendeva anche più dura l'espressione della sua fisonomia. Quindi, senza attendere l'invito, si gettò sul pagliericcio del canapè ed allentò i nastri scuri del cappellino, che la stringevano sotto il mento.

Con una occhiata rapida e sicura aveva già valutato quanto era nella cucina: le altre due rimanevano imbarazzate.

—Le scale sono un po' erte,—disse quasi scusandosi la Veronica.

—Il peggio è che sono lisce, e non conoscendole c'è da sentirsi mancare sotto un piede.

—Noi ci siamo avvezze.

—Lo credo.

Successe una pausa.

La signora Cesarina sembrava cercare con lo sguardo.

—La ragazza è di là, nella mia camera, da Bettina,—disse la signora
Veronica: vado a chiamarla.

—Aspettate: ma perchè non vi accomodate anche voi altre?

Quando furono sedute, la signora Veronica sbirciando la mamma di Tina come per incoraggiarla mormorò:

—Sì, è meglio parlare prima.

Una certa difficoltà rimaneva tuttavia fra di loro: la signora Cesarina più pratica si rivolse alla mamma con un sorriso:

—Avevo detto che sarei venuta prima, ma ho trovato qualcuno per strada, che mi ha fatto deviare; non è però molto tardi, ci si vede ancora benissimo, abbiamo tutto il tempo per discorrere. E così, che cosa volevate dirmi?

A questa domanda quasi brusca l'altra ebbe come uno smarrimento, ma la signora Veronica la sovvenne:

—Lo sapete bene, signora Cesarina.

—Sì, sì, mi ricordo tutte le vostre parole, ma io non posso quasi nulla, ciò dipenderà dalla ragazza quando l'avrò vista. Non siamo in tempi fortunati per nessuno, veggo che anche voi altre avete avuto delle disgrazie; mi avete detto che la ragazza si chiama Tina.

—Sì.

—Ed è ben disposta, non è vero?

La signora Veronica guardò l'amica.

—Sì,—balbettò questa.

—Badate, noi dobbiamo spiegarci chiaro,—si rivolse alla signora Veronica, ma evidentemente parlando coll'altra:—mi avete detto che la ragazza è minorenne e che venivate da parte sua, ma ho potuto capire dalle vostre parole che eravate mandata piuttosto dalla mamma. Io sono franca, e specialmente in certi casi bisogna spiegarsi bene per non avere a pentirsi poi. Sapete benissimo che vi è la legge, dentro la quale è facile cascare: si busca un anno per lo meno e si è rovinati per sempre: dunque la ragazza ne è contenta?

—Con me ha detto così,—rispose la signora Veronica:—potrete interrogarla voi stessa.

—C'è tempo. Ho voluto avvisarvi dei pericoli, perchè non sarei sola a correrli. Càpitano spesso di questi casi per corruzione di minorenni, e quasi sempre per la colpa della ragazza, ma allora va di mezzo anche la mamma. Lo sapete eh?

—Lo so, lo so; ma non è il caso; io e Tina ci vogliamo bene. Se non fosse…

—Lasciate, è sempre così e non c'è nulla da fare. Volevo solamente farvi capire che, se consento ad aiutarvi, non vorrei ricevere per contraccambio un cattivo servigio. Ditemi, la ragazza ha davvero solamente sedici anni?

—Sedici compiti il ventidue dello scorso febbraio.

—È bella?

—Sì, sì, bellina, la vedrete,—intervenne la signora Veronica:—un po' magrolina, ma questo in lei può piacere di più.

La signora Cesarina fece una smorfia.

—Credetemi, adesso vado di là a chiamarla.

—Aspettate: e per il resto, è davvero,—si volse alla mamma,—come la signora Veronica mi disse?

—Sì, ve lo posso giurare.

—La vedrò io stessa, mi fido del mio occhio,—aggiunse alteramente.—Poi è impossibile ingannare noi donne su questo, mentre gli uomini ci cascano invece facilmente.

La signora Veronica sorrise.

—Non crediate però che accada sempre così. Nel matrimonio è facilissimo, la passione stessa impedisce di accorgersene, ma quando gli uomini sono a sangue freddo e intendono comprarsi questa originalità, diventano schizzinosi. È un puntiglio, sapete: vogliono dopo poter dire a se medesimi di esservi riusciti, e più sono vecchi più sono esigenti.

Uno strano sorriso le passò sulle labbra, poi disse:

—Volete chiamare la ragazza?

—Per carità non la spaventate!—esclamò la mamma; e il suo grido fu così sincero che l'altra si volse a guardarla.

—Ma sì.

—Volevo dirvi,—quella seguitò umilmente:—siamo in miseria: la povera ragazza è appena vestita.

—A questo ci penso io: bisogna presentarsi benino.

—No: intendevo dire che foste indulgente: la ragazza soffre e diviene facilmente ombrosa.

—Devo andarla a chiamare?—chiese la signora Veronica.

La mamma rimaneva perplessa: si vedeva che una domanda difficile le si presentava allo spirito senza che ella trovasse la forza o il modo di esprimerla. Nel volto scarno, pallido, gli occhi chiari tremavano d'inquietudine.

—Che cosa volete dire?—intervenne per aiutarla la signora Veronica.

—Dite francamente, oramai io so tutto… perchè ella mi ha raccontato i vostri casi.

—Ecco…

E si fermò: un pudore orgoglioso le impediva di andare avanti. Non l'azione, ma il suo motivo la facevano vergognare, impedendole di sostenere lo sguardo fisso e duro dell'altra, che naturalmente aveva già capito. Ma appunto per questo le lasciò crescere l'imbarazzo.

—Spiegatevi dunque.

—Veda, se non fossimo così povere, capisce anche lei che non si farebbero certe cose. Io ho acconsentito per l'interesse di mia figlia, perchè così come viviamo non si può andare avanti. Ma non vorrei, ella mi capisce, che Tina si rovinasse per niente.

Non aveva ancora finito di parlare che la stonatura di quelle parole la fece daccapo soffrire; provava anche un certo freddo come di qualche cosa, che le si distaccasse dentro.

—Non temete…—l'altra ribattè con un sorriso di autorità:—bisogna però che io la vegga prima, e dopo discuteremo insieme. Intanto vi avviso che non dovrete sognare troppo: il vostro caso non è raro adesso che ci arrivano tante ragazze dalla campagna. Andate pure a chiamarla.

—Siate buona!—non seppe tenersi dall'esclamare la mamma, mentre la signora Veronica usciva.

La signora Cesarina si era ricomposta sul canapè, e in quella luce che cominciava ad oscurarsi, la sua figura e la sua faccia raddoppiavano sull'altra la vaga impressione di terrore provata sino dal principio della scena. Confusamente, in uno spasimo segreto, ella rivedeva i momenti migliori della propria vita, come certi infermi alla vigilia di subire una operazione chirurgica tremano di un freddo spirituale e fuggono nel passato, dove già la loro anima si esaltò nel fervore della speranza. Adesso quella donna magra, dalla faccia arida e dura, quasi di uomo, forse molto ricca sotto quegli abiti modesti, le incuteva ancora più rispetto che paura; e doveva essere senza dubbio il rovescio di lei stessa così molle in ogni volontà e cedevole a tutte le influenze. Come mai aveva potuto decidersi a un simile mestiere, giacchè anche quello era un mestiere? Chissà quante povere madri, quante povere ragazze aveva veduto piangere senza commuoversi! Ella invece non lo avrebbe potuto, il dolore degli altri le faceva male quanto il proprio.

Almeno lo credeva.

La signora Veronica comparve con Tina: la madre guardò subito a questa, meravigliandosi di vederla entrare a testa alta.

Ma si udiva piangere Betta nella stanza lontana.

—Mi hanno detto che volete vedermi,—disse Tina con un certo tremito nella voce.

—Sì, ragazza mia, lo desideravo anch'io, perchè la signora Veronica è venuta a parlarmi da parte vostra.

Tina si lasciò sfuggire un atto di diniego.

—Sono venuta ad intendermi con voi e la vostra mamma, per fare le cose benino e… state ben dritta che vi vegga, ecco… Eh! non c'è male, potete diventare una bella ragazza, se vi nutrirete meglio e sopratutto se avrete giudizio. Ma adesso non voglio dirvi tutto; io non sono come le altre,—e abbassò involontariamente la voce:—vorrei essere utile alle ragazze che ricorrono a me, ma esse non hanno mai quasi giudizio, mentre io procuro loro relazioni eccellenti. Voi mi sembrate franca.

Tina sorrise a questo complimento inaspettato, ma alzando gli occhi non potè sostenere lo sguardo dell'altra, che già la dominava. Erano bastate poche parole a stabilire il patto segreto ed infrangibile: oramai non si apparteneva più. Allora, in un impeto improvviso quasi di rivolta, volle interrogarla brutalmente, chiederle tutto, discutere a testa alta, mentre la mamma e la signora Veronica invece parevano soggiogate dal rispetto dei poveri in faccia ai padroni; ma si accorse che le parole non le sarebbero mai uscite dalla bocca.

Una nube le passò sugli occhi e qualche cosa le pesò dietro la nuca come una mano, che la tirasse pei capelli verso terra: ed era quasi la stessa sensazione della sera innanzi, quando quel signore l'aveva bruscamente afferrata alzandola sul proprio petto per gittarsi sul canapè. Le parve di diventare fredda, scura; forse i morti sono così nel sepolcro. Quelle tre donne le erano già egualmente estranee, ma aspettavano la sua parola come ella aveva veduto molte volte i gatti attendere silenziosamente sulla tavola una buccia di formaggio.

—Ho pure detto di sì!—avrebbe voluto gridare per sottrarsi a quella oppressione, che le chiudeva la gola.

Si alzò.

—Dove andate?

—Bettina piange.

Infatti le strida della piccina si erano fatte più rare e sottili: si sarebbe detto che anche a lei, in quella camera lontana, una nuova lenta paura soffocasse il dolore di un ultimo abbandono.

—Non volete dunque ascoltarmi? Abbiamo appena cominciato a parlarci,—disse la signora Cesarina con accento severo.

—Ma Tina!

Questa si rivolse alla mamma, che aveva quasi gridato, e vide nei suoi occhi lo stesso suo smarrimento.

—Sì, sì,—rispose con una ultima stretta, rivolgendosi dall'uscio.

Quando fu uscita, la signora Veronica si affrettò a dire:

—È lei che mi quieta sempre la piccina.

* * *

La mamma le aveva detto:

—Ci daranno cento franchi, sei contenta?

Questa cifra, che a Tina parve grossa, non le aveva però prodotta alcuna eccitazione; invece la sua fantasia era rimasta sbigottita da un'altra domanda:

—Chi sarà dunque?

Chi era l'uomo, che senza averla mai vista, potrebbe entrare per il primo nella sua vita come in uno dei tanti luoghi pubblici? Era giovane? vecchio?

Adesso nessuno le era più abbastanza straniero per poterlo respingere, ma quella sensazione di avvilimento, quando la prima volta si era trovata sola nella casa delle due zitellone, le ritornava più profonda e più fredda. Anche allora si era accorta di essere trattata come qualcuno, al quale non si deve nulla. Si ricordava che una mattina, uscendo dalla chiesa, aveva veduto un grosso cane avventarsi contro un bambino solo nel mezzo della strada; ella si era gittata coraggiosamente innanzi a salvare il piccino, ma nessuno aveva poi pensato a ringraziarla. Invece le due zitellone si erano intenerite pel bambino troppo piccolo per aver capito o sentito nulla.

E il suo pensiero, simile ai ciechi, che camminando sembrano prima tentare la via coll'istinto, deviava davanti alla nuova difficoltà: non voleva vedere ancora, tremava d'immaginarsi la faccia di quello sconosciuto. Invece dal cuore le saliva quasi una compiacenza amara e sottile di questa immolazione ad un uomo, che non si sarebbe nemmeno ricordato di lei: quindi si sottometteva senza lagnarsi con quella ironia muta dei poveri contro il destino. A che prò questo trionfo sulla loro miseria? Questa ingiustizia di offrire tutta una vita alla golosità di un vizio forse vecchio?

Pensava.

—Mi domanderà chi sono, e quando gli avrò detto che mi capita di fare così per la mamma, tutto finirà come se non avessi parlato. Egli non farà come l'altro.

E quella pallida, alta figura le riappariva nell'ombra della camera, davanti al letto immerso nelle tenebre. Tina s'incantò a guardarla: le parve di vedere ancora la stessa tenerezza ne' suoi occhi così accesi, e quello stesso fremito nella sua bocca di giovane, sotto i baffi appena nati, mentre la signora Cesarina aveva invece parlato di un signore molto rispettabile, capace di farle del bene. Erano le sue parole colla mamma, e Tina rimeditandole ne sentiva ancora una volta il peso sotto l'accento duro, autorevole. Nessuno doveva sapere dell'avventura; era un capriccio, come possono averne i signori, del quale bisognava profittare come di una buona fortuna.

* * *

Poi si ricordò che un giorno in campagna aveva veduto morire una gallinella.

Erano passati degli anni, ma improvvisamente rivide come dentro un quadro pieno di sole quella scena, che al suo cuore di fanciulla aveva fatto una così dolorosa impressione. Ella era uscita colla massaia sul prato del podere a mezza costa di Monte Ricco fra una verzura di oliveti e di gelsi: i grani biondeggiavano piegandosi indolentemente sotto l'alito di uno scirocco caldo, e anche adesso le pareva di riconoscere la scena sotto il cielo lucente, colle ville bianche, che in lontananza coronavano i poggi tra file immobili di cipressi.

Avevano finito di pranzare; la mamma era rimasta sonnecchiando coi gomiti sulla tavola; Matteo, il contadino, andava e veniva dalla stalla alla cucina, e i due bambini erano scomparsi.

Tina seduta sull'erba del prato accanto alla massaia guardava giù verso il rio nascosto, che serpeggiava nella valle.

Improvvisamente un pigolìo rotto da strida tormentose la distrasse. Era una torma di pollastrelli, che inseguivano una piccola gallina zoppa, dalla cresta appena simile ad una riga di sangue sulla testina tutta bianca, ma un'ala rotta e mezzo aperta le strisciava sul terreno, diventando più grande che tutto il resto del suo corpo. La chioccia, grossa e rossastra, colla cresta ricurva, che le batteva sopra un occhio, era rimasta un po' indietro dalla torma così stridula ed accanita contro quella piccola sorella ferita chi sa da chi. Si distinguevano i galletti dalle gallinelle agli occhietti di fiamma e alla cattiveria, che la paura e lo spasimo della perseguitata rendevano impaziente. Che cosa era accaduto? Ella pensò che si disputassero qualche cosa, ma non vide nulla. La gallinella tentava di fuggire col becco aperto, strascinandosi dietro l'ala e la zampa rotta per riparare dentro gli spini della siepe, che circondava il campo sulla strada; però doveva attraversare una larga terra piantata di formentone e di fagiuoli. Tina tremò che non vi arrivasse; poi non si sarebbero cacciati anche gli altri fra la siepe? Come la sua zampa e la sua ala ammalata vi avrebbero potuto penetrare?

La chioccia si era fermata beccando le larghe foglie di un'erba, che aveva un fiorellino giallo sopra il gambo sottile, senza accorgersi di quella scena.

Tina vide la gallinella cadere due o tre volte incespicando nei gambi dei fagiuoli, e quindi sparire sotto tutte quelle zampe e quei becchi furiosi.

—Perchè fanno così?—chiese con le lagrime agli occhi, tirando la massaia pel grembiale.

—È la sciancatella: giovedì nella strada le passò sopra una ruota di baroccino; non è più buona a nulla.

—L'ammazzeranno.

—I pollastrelli sono vivaci, bambina mia,—rispose la massaia sorridendo.

Ella invece si era alzata ai lamenti, che salivano da quel tumulto fra il verde dei fagiuoli e del formentone. Non si vedeva più nulla: galletti e gallinelle si pestavano l'un l'altro cacciando innanzi il becco, si saltavano sul dosso e ne scivolavano fra nuovi scoppi di collera: due galletti si battevano già coi petti tentando di ferirsi sulla testa.

Subitamente la sciancatella sbucò di sotto a quella rissa riprendendo la corsa verso la siepe come se una forza nuova la spingesse; ad ogni moto si vedeva la zampa rotta torcersi nello sforzo di stringere qualche cosa fra le dita per spiccare lo slancio, e invece restava più indietro dell'ala mezzo aperta come un ventaglio dalle stecche fracassate. Ma gli altri la inseguivano senza requie: un galletto bianco, colla cresta rossa, dentata, che spiccava vivamente su tutto il suo candore, le correva a fianco per fermarle colle zampe l'ala ferita, mentre col becco s'ingegnava di colpirla nel collo.

Ma l'altra non si fermava; oramai era a pochi passi dalla siepe. Con uno sforzo disperato vi cacciò la testa, e allora tutti le furono nuovamente addosso; l'ala rotta non poteva entrare nel vano, nè coprire il piede ferito, che vi rimaneva dietro, disteso come morto. Tina stentò a frenare un grido. L'aveva creduta quasi salva e invece si era perduta irresistibilmente. Poi quella furia si stancò, alcune gallinelle si sbandarono, la chioccia alzando la testa gittò due o tre appelli gutturali: soltanto un gruppo più accanito percoteva ancora coi becchi, specialmente quel galletto bianco, che voleva a ogni costo montarle sul dosso e sembrava impazzire nella collera di non riuscirvi. Gli altri si ritraevano già lentamente, minacciandosi fra loro. Si udiva la sciancatella stridere, perchè adesso le beccavano il piede senza che potesse nemmeno nasconderlo sotto l'ala, che il galletto bianco le schiacciava con tutto il proprio peso. Uno spasimo le contorceva il collo, mentre colla testa dentro il viluppo degli spini tentava di spingersi più avanti, ma le forze le mancarono e col becco aperto non mise più che un rantolo lungo di agonia.

Tina era sempre in piedi.

Il suo piccolo cuore si sentiva gelare nello spettacolo di quel lento assassinio; avrebbe voluto tirare daccapo la massaia pel grembiale; ma il suo viso calmo, immobile in un altro pensiero, le metteva quasi paura.

Allora fece qualche passo per discendere nel campo, poi si arrestò ad un moto dell'altra: come rispondere se questa le avesse domandato che cosa voleva? Tina stessa non lo sapeva.

Uno strido più acuto la ferì e vide il galletto bianco indietreggiare, mentre l'ala si celava tra gli spini. La fanciulla si portò ambo le mani alla bocca dalla contentezza. Ma anche il galletto si era cacciato nello stesso vano.

Nuovamente la testa della sciancatella sbucò dalla siepe: voleva fuggire pel campo cercando qualche ricovero più sicuro, gli spini tremavano e oramai tutto il collo ne era fuori, quando un altro galletto rosso vi saltò sopra. Tina scorse quella testa fra due zampe con un'altra testa, che le batteva sopra oscillando. Chiuse gli occhi.

Dopo su quella testa vide il galletto bianco beccare dentro il buco vuoto dell'occhio; la testa si muoveva ancora, ma non strideva più.

                                 *
                                * *

La mattina sulle dieci, quando Tina ebbe finito di vestirsi, sentì una improvvisa debolezza; la mamma e la signora Veronica se ne accorsero.

—Che cosa hai?—quella chiese.

Ma la ragazza non avrebbe saputo dirlo.

La signora Veronica le aveva prestato una delle sue camice, una gonna e un paio di calze bianche, la signora Cesarina aveva mandato un paio di stivalini suoi, quasi nuovi, con un abito della serva, di lanetta blu; e però Tina non pareva più la stessa.

Silenziosamente si era lasciata pettinare e vestire. Il suo pensiero vagava, sebbene nulla le sfuggisse di quei particolari, nei quali le due donne mettevano un'attenzione passionata, mentre alla signora Veronica gli occhi si accendevano di strane fosforescenze e il suo accento pareva indugiare su certe parole.

Ma nel vederla impallidire disse:

—Ho capito; manca un'ora, è meglio che la passiate aspettando dalla signora Cesarina.

—Perchè non ci accompagnate anche voi?

—Non conviene; anzi Tina dovrebbe andare sola.

La ragazza tremò.

—Ma siccome è troppo agitata, l'accompagnerete voi. Io vi aspetto qui preparando la colazione.

Tuttavia qualche cosa le aveva già divise, adesso che tutti i preparativi erano finiti. Invece di sorridere sembravano prese da una specie d'imbarazzo; la signora Adelaide si era voltata alla finestra, Tina soccombendo ad una debolezza di ammalata guardava con occhi atoni. La sua anima, prostrata sotto il peso dell'irrevocabile, ne perdeva a poco a poco anche la paura, ultima ribellione dell'istinto.

Infatti non pensava quasi più nulla di quanto si era figurato nella notte.

Quel primo, profondo mutamento della donna, dopo il quale nessuna riconosce più se stessa, si era in lei compiuto indossando quegli abiti di un'altra donna, che avevano forse servito più volte al medesimo scopo.

Dov'era? Dove andava?

Anche la mamma non era più la stessa.

La fanciulla n'ebbe una sensazione così acuta che si voltò; ma la signora Adelaide, già vestita con una gonna e uno scialle della signora Veronica, andò allo specchio per accomodarsi il fazzoletto sulla testa: Tina pure vi tornò per l'ultima volta. Era pallidissima, con una fisonomia quasi impietrita: nullameno si accorse d'essere bella.

Partirono. Nella stanza deserta non rimaneva più nulla di loro, che andavano avanti.

* * *

Per la strada nessuno le guardava.

Tina ne provò una oppressione anche maggiore. La sua piccola testa era sconvolta; a certi momenti le pareva persino impossibile di essere uscita per andare in casa di quella donna, che conosceva appena, e che aveva promesso cento lire. Come mai gli uomini avevano simili capricci per una ragazza sconosciuta, sapendo che dinanzi a loro non può che tremare di paura e di ripugnanza? Per cento lire ella non sarebbe più stata come prima, senza che questo fosse nemmeno un sacrifizio, poichè non se ne sentiva dentro l'orgoglio doloroso. Anzi una inesprimibile vergogna le faceva anticipatamente abbassare la testa pensando a quel signore, che nel guardarla doveva subito giudicare se con lei cento franchi fossero spesi abbastanza bene. Quindi temeva di scoppiare in pianto come la sera precedente, nell'istante supremo, sotto l'impeto di uno spasimo irresistibile.

Nella strada illuminata da un bel sole la folla passava senza badare a quelle due donne, che camminavano frettolose. Tina invece guardava nel viso alle ragazze, quasi desiderando che qualcuna potesse leggerle negli occhi e rispondere con uno di quei sorrisi, che non mancano nemmeno ai poveri nelle loro lunghe ed inutili questue. Ma l'indifferenza della gente le faceva male. E pensava: se mi gettassi ginocchioni nel mezzo della strada per dire tutto singhiozzando, la gente si metterebbe a ridere: infatti che cosa avrebbero potuto farci? Stava a lei di resistere con tutte le forze dell'anima: la mamma, che adesso camminava a testa bassa, non aveva insistito, nessuno le aveva usato violenza. Non erano stati nemmeno consigli, ma semplici osservazioni, parole dolenti di esperienza, alle quali rispondevano parole anche più tristi nel suo cuore: non l'avevano ingannata, non si era ingannata; dopo quella mattina comincerebbe per lei un'altra vita, e la signora Cesarina le comanderebbe sopra ben più che la mamma.

Poi la cosa si saprebbe e bisognerebbe forse mutare di casa in casa per andare chi sa dove; chi era l'uomo, che finirebbe col prenderla con sè? Questo sogno della mamma poteva bene avverarsi, ma era ancora così oscuro che le dava una nuova paura.

Tuttavia non le veniva nessuna voglia di resistere, anzi una reazione del sangue giovane le fece rialzare la testa; guardò la madre, guardò in aria. La gioia della primavera rideva dappertutto; sull'acqua del fiume la luce sfolgorava come da un cristallo; sulle lance dorate di un lungo cancello nero dinanzi ad un palazzo nuovo si accendevano baleni. Passavano molte carrozze, signore e signori felici, eleganti; vagavano sentori di profumeria, voci di ragazzi schiamazzavano.

—Quanto staremo là?—chiese improvvisamente alla mamma, come se andassero ad una visita ordinaria.

—Non so,—questa rispose stupita della domanda.

Ma Tina sentiva un nuovo bisogno di parlare.

Una signora bellissima, tutta vestita di nero con una piuma rossa sul cappello, alta, pallida, passò loro vicina senza guardare: molta gente si rivolgeva dietro di lei; poi Tina vide un vecchio mendicante tenderle la mano da lungi. Quella signora doveva essere ricchissima: vi era una sicurezza così orgogliosa nella sua figura che la fanciulla ne provò un avvilimento: infatti ella non avrebbe mai saputo, comunque la fortuna potesse aiutarla, passare a quel modo fra la gente. Aveva veduto il suo volto bianco, impassibile, come se la strada dinanzi fosse vuota.

Erano giunte sul ponte alla Carraia: il sole scottava, la mamma allentò il passo per asciugarsi il sudore sotto quel fazzolettone, ma era pallidissima.

Allora Tina pensò che avrebbe fatto meglio ad andare sola, mentre così era una disgrazia, che le colpiva tutte due insieme come avevano sempre vissuto. Però quella necessità di vivere in un modo in un altro non si poteva più discutere. Colpa di chi, se non ve n'era uno migliore? Era forse colpa di Bettina se era stata sempre ammalata? La gente ha un bel dire quando pretende che non si facciano certe cose, quasi che si potesse davvero non farle.

—Andiamo, andiamo,—disse la mamma—come indovinando in lei questi pensieri.

—Sei tu adesso che stai male.

—No.

—Se ti vedessi nella faccia! sei verde.

—Toh!—proruppe toccandole il gomito per mostrarle un'altra signora, che veniva loro incontro.—Questa la conosco,—seguitò abbassando la voce;—una volta faceva la cameriera con l'Adelaide Tessero, la famosa prima attrice, e adesso è la mantenuta dell'avvocato Crespi. Guarda come è ben messa.

Ma per paura di essere riconosciuta sotto quei poveri panni volse la testa verso Tina: la ragazza invece guardava. La signora non era bella e nemmeno più giovane, con una di quelle arie superbe che sembrano voler significare, magari inutilmente, il disprezzo verso la povera gente.

La mamma si era voltata ad esaminarla per di dietro.

—E dire che fui io a farla entrare come cameriera in casa dell'Adelaide
Tessero: senza di me forse non avrebbe fatto fortuna. Ci vuole testa,
Tina, specialmente in principio.

—Perchè dunque mi conduci là?—fu quasi per prorompere la ragazza.

Svoltavano già all'angolo dell'ultima strada.

Tacquero.

* * *

La signora Cesarina le accolse col solito sorriso importante.

Esaminò subito Tina e si compiacque che l'abito le andasse abbastanza bene: anche la serva, che pareva una ragazza nella fisonomia, ne convenne, ma la sua voce era fessa e negli occhi verdastri le brillava una luce fredda.

Poi rientrò nella cucina.

Le tre donne rimasero nel salotto. Tina si aspettava un nuovo discorso; invece la signora Cesarina si mise a parlare con la mamma delle spese sempre più grosse pel mantenimento della casa.

—Vedete la mia; ora ve la mostrerò, non è gran cosa,—ma si sentiva nell'accento delle parole una compiacenza orgogliosa,—e mi costa un occhio. Non tengo che quella serva, la quale fa anche la cucina per bene, se qualche volta capita ad un signore di volere cenare qui. Se vi dicessi la cifra della pigione, rabbrividereste, perchè questa strada non è poi delle prime.

—Però è una bella strada,—si credette in dovere di contraddire la mamma.

—Sì, sì; questo appartamento in via Calzaioli o in via Cerretani costerebbe chi sa quanto. Ma è un fatto che bisogna avere una casa passabile, e così accade anche per i vestiti. Io ho una sarta, brava donna, che lavora per poco:—e i suoi occhi si volsero a Tina:—ve la insegnerò.

La mamma ebbe un sospiro pensando ai propri tempi belli, mentre Tina invece avrebbe voluto domandare il nome del signore, che attendevano; ma non l'osava. La signora Cesarina in quell'ampia veste da camera, color di edera morta e orlata di blonde rossigne, le imponeva un rispetto quasi pauroso: il suo riserbo e la calcolata inutilità di quel discorso aumentavano per lei l'incertezza della attesa.

—Venite, vi mostro l'appartamento.

Da quel salottino bislungo, nel quale non erano che un sofà, un tavolo e altri due tavolini a muro con le specchiere, passarono subito in una camera più bella. Un grande letto vi si allargava sotto un baldacchino, nel cui mezzo uno specchio rettangolare s'inchinava fasciato da una larga striscia di fiori, e altri fiori erano dipinti in alto sulla lastra. Tutti i mobili erano biancastri. Tina camminava adagio sul tappeto grigio, lanoso; ma stupì maggiormente nello scorgere un altro specchio nascosto sotto il cielo del baldacchino.

—Questa coperta bisogna levarla, perchè si sciuperebbe,—disse la signora Cesarina—sollevandone con ambo le mani un lembo per mostrare loro la ricchezza della frangia.—Guardate come la coperta è ampia, tocca quasi il tappeto.

Tutte e tre indugiavano dinanzi a quell'immenso letto bianco: anche la camera era quasi troppo grande, piena di un silenzio e di una penombra che turbavano.

—Ho messo le tende anche alle porte perchè non si odano rumori: quelle delle finestre sono doppie. Invece entrate in questa camera più modesta, è la mia.

—Ma è bella altrettanto!—esclamò la signora Adelaide.

—Che cosa dite? I mobili sono di noce e il letto per una persona sola. Io vivo a me, non ho nessuno. Ecco, quell'uscio mette nel corridoio d'ingresso: se qualcuno non vuol essere veduto, invece di entrare nel salotto, passa per la mia camera. Quella porta in fondo è della cucina.

Compirono il giro tornando nel salotto.

Appena dentro, la signora Cesarina si fermò dinanzi alla ragazza per accomodarle sul petto una piega.

—Potreste comprare questo abito, che vi sta alla perfezione, e anche le scarpe, sapete? Il vostro piede è quasi piccolo quanto il mio,—seguitò sporgendolo dalla veste:—vediamo, confrontiamo. Queste scarpe le ho messe soltanto due volte, ve le posso cedere per dodici lire, un vero regalo. L'abito ne costa cinquanta, ma per voi, piccina, giacchè ho preso a proteggervi, dirò a Tuda di fare un sacrificio. Ve lo cederà, è capricciosa; adesso l'abito non le piace più.

La mamma capiva benissimo che simili prezzi erano esagerati, ma non voleva contraddire e sbirciò Tina; questa anche più imbarazzata aveva abbassato gli occhi.

—Non sarete sempre così, figlia mia?—disse la signora Cesarina facendole una carezza sotto il mento:—non sareste divertente. Bisogna essere allegre almeno nella gioventù, se no gli uomini si disgustano: dite dunque qualche cosa; non avete ancora aperto bocca.

—Che cosa debbo dire?—domandò Tina con voce grossa di una emozione dolorosa, che l'altra finse di non avvertire.

Il momento si avvicinava.

Nel gabinetto il silenzio diventava greve. Malgrado la lunga pratica, anche la signora Cesarina cominciava ad essere imbarazzata dal contegno umile e dolente delle due donne: per solito non accadeva così. I suoi occhietti neri andavano dal viso dell'una a quello dell'altra senza che sulla sua faccia magra ed impenetrabile apparisse nulla, ma il suo giudizio su loro era già formato. Quindi, per evitare che questa goffaggine calasse ancora di tono preparando qualche spiacevole incidente, tentò di far parlare la ragazza chiedendole delle sue amiche.

—Ma non ne ho.

—Nessuna?

—Nessuna.

—Da molti anni,—intervenne la mamma col suo accento strascicato,—viviamo così ritirate che io stessa ho perduto di vista tutti i miei conoscenti.

—Ebbene, avete fatto male. Io vi procurerò delle relazioni, se mi darete retta: non sarete le prime donne alle quali ho aperto la strada della fortuna. Ma bisogna lasciarsi guidare e non commettere balordaggini, specialmente in principio.

—Quello che dico sempre io.

Tina alzò la testa.

—Ma avrete fiducia in me?—seguitò la signora Cesarina.

—Sì.

—State dunque allegra; diavolo! si direbbe che vi faccia male un dente e che aspettiate qui il dentista.

Il motto era così bizzarro e lo scatto delle parole così vivo, che le due donne dovettero sorridere.

Ma un rumore sommesso arrivò nel salotto. Tacquero; la signora Cesarina si alzò e poco dopo la faccia scialba della serva apparve alla porta senza dir nulla.

La signora Cesarina uscì.

Appena sole, le due donne si guardarono tremando. Tina era diventata orribilmente pallida, si sentiva attanagliare lo stomaco, ma fece uno sforzo supremo per resistere, perchè questa volta era decisa; la madre glielo lesse negli occhi senza osare di dirle nulla. Adesso era lei che dubitava: dopo quella grande giornata del pranzo, in quel salotto quasi ricco, davanti a Tina ben vestita, non provava più quella oppressione continua e soffocante della miseria. Come se fosse tornata ai tempi buoni, il suo orgoglio e il suo affetto si ribellavano improvvisamente alla violazione segreta della figlia, al sacrificio di tutto il suo avvenire, senza sapere nemmeno il nome dell'uomo cui doveva abbandonarla nella disperazione della morte. Ella le vedeva infatti sul volto tutti gli sforzi, coi quali tentava di resistere, e che le rompevano senza dubbio qualche cosa dentro.

La ragazza si portò una mano al cuore, ma la sua testa era ancora alta, fremente.

La signora Cesarina rientrò.

Capì, ed affrettandosi per timore di uno scoppio, le prese carezzevolmente la mano:

—È venuto,—sussurrò.

—Chi è?—chiese la mamma.

—Non bisogna farlo aspettare: con le persone come lui non sarebbe bene, quantunque sia molto buono. L'accompagnerò io di là; voi non potreste mostrarvi così vestita. Venite eh!

Tina si scosse, ma i suoi occhi non sapevano staccarsi dalla madre: una fiamma vi bruciava e pareva salirle su per la fronte come da un altare di marmo; non disse parola: era così bella in quel momento che anche la signora Cesarina ne rimase colpita.

La mamma abbassò la testa.

—Andiamo.

La ragazza ubbidì, ma la signora Cesarina le si mise dietro quasi per impedirle di arrestarsi; poi aperse l'uscio e rinchiuse.

La mamma con la faccia sconvolta corse a cercare il buco della serratura senza ricordarsi che dall'altro lato la porta aveva una pesante tenda di iuta.

* * *

Passò del tempo.

Ella non osava sedersi: involontariamente il suo orecchio si tendeva a cogliere un qualche rumore da quella camera, mentre il silenzio intorno diveniva più opprimente e nel fondo dell'anima una nuova paura, come di una disgrazia nuova, la faceva tremare con dei brividi simili a quelli della febbre. Non era stato così la sera innanzi quando quel signore stava con Tina nella cucina. Adesso la sua ripugnanza di donna debole si rivoltava finalmente contro quel mistero, del quale la signora Cesarina sembrava quasi compiacersi: ella non si aspettava a questo. Aveva creduto di poter parlare, difendendo la propria figlia perchè almeno fosse trattata bene, e invece non aveva visto nulla, non sapeva nulla: chi era dunque quel signore? Perchè non voleva farsi vedere? Era un mostro?

Certo doveva essere un signore se poteva gettare così cento lire, ma anche di queste ella ignorava la propria parte. Istintivamente capiva che la signora Cesarina si farebbe pagare ben caro il nolo delle scarpine e dell'abito; poi vorrebbe qualche altra cosa per sè. Quanto?

Vi pensava ancora, quando la signora Cesarina entrò dall'altra porta del salotto silenziosamente, chiamandola con un gesto.

—Sedete, dobbiamo parlare,—disse a bassa voce.

Il suo volto era diventato più freddo.

—D'ora innanzi, lo capite voi, la ragazza non può andare così mal vestita: non parlo di me, ma nessuna altra casa inferiore alla mia l'accoglierebbe. Vi ho già detto che fareste bene a comprarle l'abito della mia serva e quelle scarpine, ma siccome è la prima volta che trattiamo insieme, non voglio che mi prendiate per quella che non sono. Così ho chiesto alla serva che cosa esige per il prestito dell'abito e l'ho trovata di buona vena; si contenta di dieci lire. Quanto alle scarpe, capirete che io non posso rimetterle più, e dovete comprarle: ve le do per dieci lire; vi pare troppo?—s'interruppe imbarazzata dal silenzio e dalla immobilità dell'altra:—Ma perchè non sedete? C'è tempo.

La signora Adelaide sedette, ma i suoi orecchi erano sempre tesi verso l'altra camera.

—Chi è quel signore?

—Oh! un vero signore. Andate: ho procurato a vostra figlia un'ottima relazione, se saprà coltivarla mostrandosi docile. Di questo anzi dovete persuaderla voi, perchè le ragazze non capiscono quasi mai l'importanza di certe cose, e allora tutti i sacrifici tornano inutili.

—Purchè la tratti bene: Tina è una eccellente ragazza.

—È troppo fredda; la gente invece vuole divertirsi.

La verità di questa osservazione le fece passare un fremito nel sangue; tuttavia tentò di resistere.

—Anzi il suo carattere sarebbe allegro, ma in certe condizioni si finisce facilmente coll'avvilirsi. La vedrete se potrà rifiorire. Io non vorrei però che si abbandonasse troppo: ecco perchè vi domando se quel signore…

—Che cosa volete dire?

—Se si innamorasse,—seguitò l'altra con visibile sforzo,—potrebbe mantenerla?

—Oh! come correte,—ribattè la signora Cesarina con un riso secco.

Allora l'altra capì lo sproposito di quelle parole: come mai le erano sfuggite, sapendo che l'interesse della signora Cesarina sarebbe stato appunto nell'impedire a Tina una simile fortuna? Aveva avuto torto un'altra volta, non sapeva parlare. Il contegno di quella donna l'umiliava togliendole persino quanto le era rimasto della sua educazione di altri tempi; nondimeno volle reagire.

—Bene, vedremo.

Le pareva che fosse già trascorso molto tempo. La signora Cesarina si alzò.

—Aspetto altre persone: se verranno, vi farò passare nella cucina.

Ma udirono uno strido lungo, acuto.

La mamma impallidì, istintivamente fece un passo verso la porta di quella camera mentre gli occhi le si empivano di una nebbia umida.

—Venite in cucina,—l'altra disse.

—Perchè?—rispose quasi fieramente.

—Restate qui se volete, finchè non arrivino le persone che aspetto.

—Non verranno già per Tina?

La signora Cesarina ebbe un sorriso.

—Troppo, troppo! Potrebbero forse vederla, però se non volete…

—Aspetto di potermela ricondurre a casa.

L'altra uscì.

—Mio Dio!—mormorò la signora Adelaide quasi singhiozzando; ma anche questa invocazione la turbò come se non avesse più diritto a così grande parola:—Che cosa ho fatto, che cosa ho fatto!

Qualche cosa aveva ferito anche lei senza che sentisse bene dove, ma le venivano meno le forze, mentre una luce gelata, quasi d'inverno, le cresceva dentro; e si ricordò di avere un'altra volta atteso così all'uscio della mamma ammalata che il medico ne uscisse per pronunciare la sentenza di morte. Anche allora aveva tremato, poi rivedendo la mamma non le era sembrata più la stessa.

Si lasciò cadere sopra una sedia.

Il silenzio era diventato più profondo nel salotto: il pavimento di mattoni rossi aveva dei luccicori sanguigni, quantunque le tende impedissero al sole d'entrare dalla strada.

Chi aspettava dunque ancora la signora Cesarina?

* * *

Quando Tina lo vide alzare la tenda della porta, che dava nel salotto, tornò indietro per fuggire: le sue scarpine non scricchiolarono sul tappeto, girò la maniglia dell'usciolo, e dal corridoio si precipitò alla porta.

—Dove andate?—le gridò la signora Cesarina uscendo dalla cucina.

Ma l'altra scendeva già a furia le scale, e non si fermò che in mezzo alla via come dinanzi alla sensazione improvvisa della propria stravaganza.

Era mezzogiorno, per la strada passava poca gente.

Riprese la corsa. Il cuore le batteva contro il petto come un batacchio di campana, del quale ogni colpo la scrollasse, ma nè le vesti, nè il volto tradivano il profondo sconvolgimento del suo spirito. Infatti aveva potuto rivestirsi in fretta, con una precisione quasi inconsapevole, prima ancora che l'altro finisse di ricomporsi allo specchio. Per due volte si era accorta di rispondergli senza intendere il significato delle sue parole, perchè dentro le cresceva simile ad una vampa quella voglia di fuggire per essere finalmente sola in qualche luogo. Le mani le tremavano. Sentiva di essere spettinata, ma non se ne preoccupò: temeva solamente di dover tornare con lui nel salotto a parlare con la mamma e con la signora Cesarina.

Quindi era fuggita senza che gli altri potessero indovinarne la ragione.

In quel giorno e in quell'ora le strade erano piene di gente uscita a rallegrarsi nella gioia del sole, ma nessuno fra tanti le verrebbe incontro per chiederle che cosa avesse o per offrirle la propria casa come un rifugio.

Nondimeno aveva bisogno di fuggire.

Curva, col ventre quasi rattrappito da uno spasimo, che tratto tratto la faceva incespicare nelle sottane, la fanciulla si affrettava. La sua faccia smorta di un pallore di cenere, che qualcuno le avesse soffiato sino dentro agli occhi, si era irrigidita, mentre dalla bocca semiaperta pareva uscirle un'ombra come in certi ritratti. Senza saperne il motivo aveva già svoltato a sinistra per una strada anche meno affollata; il sole vi batteva nel mezzo, l'aria era fervida. Ella invece si vedeva passare la gente accanto quasi in un sogno di ombre che la spingessero silenziosamente dileguando per un crepuscolo; poi un soffio caldo le battè improvvisamente sulla faccia e qualche cosa le fece chiudere gli occhi, giacchè uno spavento le era rimasto nelle carni. Una carrozza, che veniva al trotto di due grandi cavalli bai, le fu quasi sopra allo sbocco di una piazzetta, mentre ferma nel mezzo si tastava con ambo le mani sui fianchi: che cosa aveva perduto? Il cocchiere gettò un urlo, un signore si sporse dallo sportello, ma Tina si era appena voltata senza muoversi, con quella tragica indifferenza alla quale è impossibile ingannarsi.

Infatti una vecchia le si accostò.

—Che cosa avete?—le chiese.

La fanciulla tremò, cercandosi intorno cogli occhi; la piazzetta era vuota e silenziosa. Un suono di martelli veniva da una bottega, in alto da una finestra sventolava un largo drappo bianco: ella non sentì altro, ma la vecchia la scrutava nel volto e negli abiti con la acuta prontezza delle donne quando sospettano un dramma.

Quindi soggiunse:

—Vi deve essere accaduto qualche cosa.

Allora Tina la vide finalmente dentro uno di quei bagliori, che penetrano sino al fondo dello spirito: la vecchia era sdentata, coi pomelli scarlatti. Un ciuffo di capelli bianchi le usciva di sotto il fazzoletto, e dagli occhi rotondi, acuti, un raggio sprizzava come da due punti neri.

Tina aveva capito benissimo, ma non avrebbe potuto rispondere che col nome del vicolo ove abitava: perchè? Non lo sapeva, eppure ripetè quel nome mentalmente due o tre volte.

Poi vedendo venire un prete alto, magro, cogli occhiali a stanghetta troppo bassi sul naso, ebbe daccapo paura e si mosse a destra verso una strada, che aveva riconosciuta. La vecchia invece rimase qualche secondo a guardarle dietro, quindi scosse il capo sbozzando uno di quei sorrisi incerti, coi quali spesso una curiosità si stacca da un enigma incontrato a caso per la via.

Ma la fanciulla era sfinita. Adesso quello spasimo sotto il ventre le si acuiva diffondendosi come da una scottatura, sulla quale piovessero dritti e sottili una infinità di spilli, e le gambe le vacillavano in un improvviso esaurimento.

Infatti non aveva voluto mangiare nulla a casa, malgrado le istanze della signora Veronica, che per fargli inghiottire un caffè col latte citava persino le larghe colazioni e i pranzi di nozze, prima che gli sposi rimangano soli. Poi le troppe emozioni di quella crisi avevano finito col renderla davvero ammalata.

Nuovamente quel freddo le soffiava lunghi brividi nel sangue sotto il sole, che non potevano più riscaldarla, mentre gli occhi torbidi cercavano istintivamente un luogo ove fermarsi nascosta a tutti per potere almeno appoggiare la testa. Se fosse stata in campagna, si sarebbe gittata sull'erba; ma si accorgeva invece di essere stretta fra due file di case, dalle finestre delle quali tratto tratto le apparivano volti di donne e di fanciulli.

Molte porte erano aperte e le botteghe si perdevano oscure dietro i vetri luminosi. Più innanzi, mentre passava un'altra carrozza, vide sul marciapiede un tavolino da caffè con due sedie vuote, si arrestò, ma non avrebbe potuto sedersi perchè non aveva un soldo in tasca; poi la sua figura di fanciulla in quella condizione vi sarebbe stata subito notata. Bastavano già la sua faccia e quel modo di camminare per attrarre l'attenzione. Qualcuno si rivolgeva a guardarle dietro; altre occhiate la seguivano dalla porta delle botteghe, sebbene si sforzasse di andare come il solito rasente il muro per essere meno osservata, ma la sfinitezza e quello spasimo, quello spasimo soprattutto, l'impedivano.

—Dove vado?—si chiese improvvisamente.

La mamma doveva essere uscita per correrle dietro, perchè alla fanciulla pareva di avere molto corso dapprincipio; quindi l'aria e il sole l'avevano a poco a poco calmata.

L'opacità de' suoi occhi si schiariva e la mente le si riordinava sotto le sensazioni di quella strana fuga nella strada senza che alcuno la inseguisse e senza sapere dove andasse, con quel vestito non suo. Ella non era mai stata così. Si accorgeva di apparire un'altra con quella gonna, che le pesava sui fianchi, e il respiro soffocato dal corsetto.

Una signora le passò rapidamente davanti, lasciando nell'aria una striscia di profumo: si vedeva al passo che aveva fretta.

Allora Tina pensò che per tornare a casa le abbisognerebbe più di un'ora. Come accade spesso, la crisi stava per risolversi in un ultimo esaurimento, dal quale come in una visione di sogno le risaliva dinanzi l'orribile scena di quella camera muta e sontuosa. Ella ne aveva subito sentito il silenzio equivoco fra tutto quel candore perlaceo dei mobili e quello specchio sotto il baldacchino del letto, simile ad una finestra, che si aprisse nella sua ombra discreta sopra un chiarore di lago lontano.

Per fortuna scorse una chiesetta fra due vecchie case: entrò.

La chiesa era vuota, silenziosa. Alcune file di panche arrivavano sino quasi all'altar maggiore, ma la fanciulla non vi si mise frammezzo, perchè la chiesa le pareva ancora grande. Nella sua luce troppo bianca il silenzio era così profondo che ne aveva ricevuto subito come una sensazione di rifugio. Poi v'intese muovere qualche cosa. Infatti scoprì due vecchie dietro un pilastro a chiacchierare.

Un sagrestano in sottana azzurra a bottoni rossi sbucò di fianco all'altar maggiore con un oggetto in mano, che ella non distinse, e si fermò a guardarla.

Allora ebbe daccapo paura. Istintivamente si diresse a sinistra sotto una navata piccola e bassa, piena di ombra nel fondo, e cadde sopra una larga sedia di paglia, che aveva dinanzi l'inginocchiatoio.

Trepidando aveva udito echeggiare i propri passi, ma chiuse tosto gli occhi davanti alla cappella sprofondata nel muro come una grotta, nella quale ardevano due o tre lampade.

Era rimasta così con la testa appoggiata al muro, le mani strette sul grembo in atto dolente.

Un torpore di sonno la tenne lungamente immobile. E adagio la sua testa pallida si piegò sulla spalla destra, cogli occhi chiusi, la bocca troppo aperta nello sforzo di respirare, mentre un sudore le bagnava tutto il volto bianco in un freddo di agonia. Le mani le tremavano. Poco dopo le due vecchie si alzarono per uscire, seguitando a chiacchierare sotto voce, ma ella non intese il murmure delle loro parole, che nel silenzio della chiesa sembrava quello di un'ala ostinata ai vetri di una finestra: la porta cigolò e ricadde sopra un tonfo cupo.

Passò così del tempo senza che potesse addormentarsi davvero. La sua ultima sensazione era stata quel lumicino verdastro davanti all'immagine della Madonna Addolorata, biancheggiante sull'altare, con un mazzo di spade lucenti nel cuore.

Poi in quell'angolo così lungi da tutto il mondo la sua anima risalì un'altra volta dalle profondità senza fine dell'ombra, come certi fiori a notte si rialzano dall'acqua alla pallida luce delle stelle. Una rilassatezza molle le toglieva di sentire ancora quella prima angoscia, quando era fuggita improvvisamente alle spalle di quell'uomo che non si ricordava più di lei. Allora le era parso di correre quasi nel delirio della morte verso un'altra ignota catastrofe: non si ricordava più della mamma nè di Betta, che l'aspettava nel lettino forse piangendo. La sua carne tremava tutta nello spasimo di una rivolta sotto la prepotenza così misurata ed irresistibile di quell'uomo, giacchè aveva subito rabbrividito davanti a lui, al suo viso rosso sopra un collo anche più rosso e villoso, vedendolo andare silenziosamente verso l'attaccapanni per levarsi la giacca.

Ritta nel mezzo ella guardava.

Era impossibile che dovesse accadere così. Il suo pensiero aveva avuto dei trasalimenti di bambino nelle tenebre, e il sangue le si era gelato istantaneamente al contatto delle mani pesanti, che la stringevano senza lasciarle nemmeno la grazia di un ultimo ritardo.

E però non aveva parlato. Ma un odio subitaneo l'aveva invasa contro quell'uomo calvo, col ventre che gli usciva dalle tracolle rosse. Perchè non le aveva egli nemmeno chiesto come si chiamava? I suoi occhi lucidi come quelli dei gatti la fissavano con tale acutezza che la fanciulla si coperse la faccia con ambo le mani.

Così, rimanere almeno così!

Adesso tornava a tremare ricordando.

I suoi occhi, le sue mani, tutto aveva dovuto diversamente soffrire prima di quello spasimo supremo, nel quale le era parso di morire, mentre in alto la sua immagine nuda affogava dentro il lucido gorgo dello specchio in una convulsione di agonia. Ma solamente allora le era fuggito il grido acuto, disperato, come se un ferro rovente le penetrasse nelle carni sino alle ultime vene, dove la vita si nasconde: poi un velo torbido le era caduto sugli occhi, e l'anima stessa non aveva visto più.

Lentamente, con un sospiro si allungò sulla grande sedia di paglia.

Stava sempre con la testa appoggiata al muro, gli occhi fisi alla immagine dell'Addolorata in atteggiamento di preghiera, ma non aveva più impeti di ripugnanza o di rivolta rivedendo ancora quell'uomo, già lontano dalla sua vita simile ad un campo devastato dall'uragano. Qualche cosa però le mancava dentro, che la rendeva dissimile, quasi irriconoscibile a se medesima. Quel lumicino verdastro come certi luccicori gemmei fra l'erba, quando la notte è più cupa, le incantava lo sguardo; non vedeva ancora, non comprendeva bene dove fosse.

Forse qualche naufrago, gettato morente sul lido, nel riaprire gli occhi alla vita la sentì così fra l'ultima furia della tempesta, mentre il mare è confuso col cielo e nell'ombra il rombo dura monotono.

Alcuni passi echeggiarono nella chiesa, voci e parole si avvicinavano: istintivamente, per non essere riconosciuta si piegò sull'inginocchiatoio, nascondendo il volto fra le mani.

Erano tre donne e due uomini, che venivano appunto sotto quella navata verso di lei.

La sua sensibilità si acuì istantaneamente come se un soffio violento le dissipasse dall'anima ogni ombra, ma non potè resistere in tale atteggiamento ai dolori che la riprendevano dentro i ginocchi e sotto le reni.

Quello stesso sagrestano, in sottana azzurra a bottoni rossi, accompagnava i visitatori. Allora Tina sbirciando fra le dita provò un'altra volta l'impressione del suo sguardo e capì che le bisognava uscire: fortunatamente essi si erano fermati dinanzi alla seconda cappella.

La fanciulla si rialzò, guardò l'Addolorata senza che dal cuore nessuna parola le salisse verso quella immagine di tutti i dolori femminili, poi girò dietro il pilastro. Attraversando la chiesa ebbe ancora la sensazione vaga di essere in un luogo straniero, che non poteva appartenere ad alcuno: il suo silenzio, la sua luce erano come quella di una strada vuota in una notte lunare: si è soli, ma se vi fermate, sentite che è impossibile di restarvi.

* * *

Due ore dopo la mamma e la signora Veronica stavano silenziose intorno al suo letto: la fanciulla teneva gli occhi chiusi nella faccia di un pallore marmoreo.

Aveva le vesti in disordine; dal corsetto sbottonato le traspariva il seno, e di sotto alle gonne le usciva una gamba con la calza bianca increspata, perchè il legaccio era caduto.

La signora Veronica si chinò ad accarezzarle i capelli.

—Tina, sono le cinque: bisogna mettere qualche cosa nello stomaco, bambina mia: alzatevi, non vi farà bene stare così, il letto indebolisce.

La fanciulla si mosse appena.

—Ho fatto il brodo, ne volete una tazza?

—Come ti senti?—arrischiò timidamente la mamma, che avrebbe voluto prenderle una mano.

Tina indovinò l'intenzione, ma il suo volto rimase muto, mentre i suoi occhi diventati più grandi la guardavano pieni di una luce triste, simile a quella di certi tramonti, quando un giorno senza sole sta per cadere in una notte senza stelle.

—Levatevi, levatevi,—insistè l'altra.

Allora la mamma si accostò, e siccome la fanciulla fece uno sforzo per sollevarsi dal cuscino ella le tese ambo le mani.

—Tina mia!

—Ecco una cosa che non va bene!—seguitò la signora Veronica, scontenta della piega che stava per prendere la scena:—Come fate dunque voi altre a piangere sempre, anche quando ve n'è meno bisogno?

Ma si erano già abbracciate: la mamma si stringeva sul petto la figlia ritta presso la sponda del letto, coi piedi solamente nelle calze e la testa abbandonata singhiozzando.

—Come stai? Come stai?—le ripeteva sommessamente la mamma, mentre la signora Veronica cercava cogli occhi per la stanza le ciabatte della fanciulla.

Finalmente esclamò:

—Vedete: dovevate spogliarvi, l'abito adesso si è tutto spiegazzato; bisognerà stirarlo se avrete da uscire domani.

—Mamma!

—Lo so, lo so.

—Sto male.

—È cosa che passa.

—No, no.

L'altra non ardì insistere.

Poi la signora Veronica mise ella stessa le ciabatte nei piedi della fanciulla, e la condussero nell'altra stanza ognuna per un braccio come una ammalata. Volevano confortarla senza chiedere della scena avvenuta in quella camera e come ne fosse fuggita perdendo quasi quattro ore, ma la curiosità le sospingeva attraverso un imbarazzo non mai provato.

La fanciulla invece guardava con un senso di nuovo amaro stupore la miseria della stanza, come se la visione di quell'altra con le grandi tende doppie abbassate e i bianchi mobili, sorridenti in un silenzio di sogno, che gli specchi sembravano prolungare in altre camere, le fosse rimasta negli occhi.

E si accorgeva come per la prima volta di quello squallore.

Il suo cuore si strinse.

Ma nuovamente un impeto doloroso la sollevò, una negazione disperata di quanto le era accaduto sotto le mani pesanti di quell'uomo, che se n'era andato sorridente. Ella vedeva ancora il suo sorriso muto, più crudele di qualunque parola, più lungo di uno sguardo.

—Ah!—esclamò, coprendosi gli occhi con le mani e scuotendovi dentro il capo con ira tremante.

—Che cosa hai?

—Lasciatemi, siete voi che l'avete voluto.

—Di chi parli?

—Di quell'uomo; mai più, mai più!

—Vi ha forse trattato male?—chiese con accento di viva curiosità la signora Veronica.

La fanciulla si volse come punta da uno spillo, ma la faccia grassa e sorridente dell'altra le arrestò il grido della risposta.

Nondimeno la signora Veronica capì di dover uscire.

* * *

Entrambe avevano bisogno di parlare.

Benchè si sentissero divise per sempre, non avrebbero saputo resistere a quel silenzio della loro nuova solitudine; Tina sospirò abbandonandosi sulla sedia con una stanchezza di ammalata.

—Che cosa hai? Dimmelo.

Fra mamma e figlia l'intimità era sempre stata come fra due donne diverse di età più che di grado, le quali si potevano dir tutto.

La signora Adelaide aspettò qualche momento.

—Dimmelo, Tina mia, che cosa hai? È una cosa che passa.

—No, no.

—Credimi, accade così a tutte.

—No,—ripetè ostinatamente la fanciulla.

L'altra si fece umile come dinanzi ad un rimprovero, sottomettendovisi anticipatamente; attese che la fanciulla si sfogasse, ma invece le vide gli occhi gonfiarsi nuovamente.

—Ho male, ho male,—disse finalmente Tina con accento smanioso:—Non ne posso più. Dovevate dirmelo; perchè siete stata anche voi così ammalata, lo siete anche adesso.

—Ma…

—Lo sapevate: ora non valgo più nulla, me ne sono accorta al modo che mi ha trattata. Bisogna essere ben cattivi, anche tu sei stata cattiva come lui. Lascia pure che tu mi abbia venduta,—seguitò con accento stridulo e una fiamma negli occhi, che a volte a volte pareva quella di un lucignolo presso a spegnersi, mentre una smorfia dolorosa le storceva la bocca:—lascia che io non fossi niente nè per la signora Cesarina, nè per lui; questo lo so anch'io, in simili casi è come quando si domanda l'elemosina, peggio anzi, perchè allora vi è sempre qualcuno che ve la fa senza offendervi. No, ma così era troppo. Egli rideva: io ho dovuto fare… vedi, in quel momento mi parve di non capire più, ma adesso, se fosse qui, gli sputerei in faccia.

La mamma abbassò la testa.

—Ti hanno pagata, non è vero? Adesso puoi essere contenta; vedi, se mi avesse parlato prima, se mi avesse detto qualche cosa come quell'altro, non so come avrei risposto, ma non doveva fare così, non fanno così nemmeno i chirurghi all'ospedale con la povera gente, che ha paura. Anch'io avevo paura. Non avrei potuto muovermi. Appena, sai, mi sono sentita guardare così, ho capito che non potevo far niente; mi sembrava in quella camera così grande di essere lontana cento miglia anche da te, che eri nell'altra. Che cosa pensavi allora?

A questa inattesa domanda l'altra trasalì; ma Tina si alzò per fare due o tre passi nella cucina. Un orgasmo le si riaccendeva dentro, un bisogno di rimproverare, di minacciare colei che l'aveva condotta in quella casa, a quell'uomo, davanti al quale non aveva potuto trovare nè una parola, nè un atto di resistenza.

Invece le si voltò bruscamente:

—Perchè piangi?

—Che cosa vuoi che ti faccia? Stai male, dimmi che cosa vuoi.

—Non lo so.

—Torna a letto.

—No, no, non posso.

—Vedi, io certe volte…

Tina non la lasciò finire:

—Dammi un bicchier d'acqua, brucio; ma la signora Cesarina, bada, non voglio vederla più. La sua faccia mi fa male come quell'uomo: scommetto che ti ha di già fatto pagare l'abito e le scarpe; non ti sarà rimasto quasi nulla, ecco come va a finire.

—La prima volta, ma dopo…

—Ah! tu credi che ci tornerò!—stridè quasi minacciosamente la fanciulla.

—Farai come ti piace, Tina mia; io non ti dico più nulla. Avevo creduto così per il tuo bene, per farti diventare una signora: tu lo sai, io ti voglio bene, se avessi potuto mantenerti, io l'avrei fatto con tutto il cuore, ma vedi come sono ridotta:—aggiunse con un sorriso d'ironia dolorosa:—quando non si può, non si può.

Si era seduta accanto a lei.

—Quanto ti ha dato la signora Cesarina?

—Ho rimasto quindici lire.

—Quindici lire!

—Perchè ho dovuto darne quattro alla signora Veronica: pranzeremo da lei.

—Vedi: questi cenci e queste scarpe, ecco tutto il guadagno! Che cosa sono io adesso? Tu ti sei ridotta così dopo aver fatto tutto, e mi hai voluto cacciare per la medesima strada; ma ti sei ingannata, io non sono come te, non posso sopportare: io non ci vado più in quella casa, o mi butto piuttosto a fiume.

—No, Tina, no, Tina!—proruppe levandosi in piedi per abbracciarla:—come vorrai. Io cercherò un mezzo servizio, tu sarai presto rimessa, e capiterà anche a te qualche cosa, un modo di vivere. Nessuno ha saputo niente.

—Lo credi? E la signora Veronica?

—Dubiteresti?

—Tu, povera mamma, sei più bambina di me: colei ci mangia addosso, ecco tutto. È stata lei a spingermi, assai più di te.

—È vero, sono mesi che me lo diceva. Che cosa vuoi? Quando si è tanto poveri, non si sa più a chi rivolgersi. Adesso rimettiti un po', bisogna mangiare, ne devi a quest'ora sentire necessità. Stamane sei quasi rimasta digiuna: sei stanca?

L'altra non rispose.

—Hai girato molto?

—Non lo so, mi sono trovata in una chiesa.

—Vedi, se me lo ero immaginato! La signora Veronica non voleva crederlo: io capisco.

—Non so quanto vi sia rimasta: ero così sfinita, mezza morta, che non capivo più nulla. Ne sono uscita quando ho visto entrar gente: allora ho pensato che dovevi aver paura per me, che non mi fossi buttata in Arno. Me n'era venuta l'idea sul ponte, ma era giorno.

—Che cosa dici?

—Niente: ci vuole la notte per buttarsi giù, che non ci veggano almeno.

—Non devi fare certi discorsi.

—E tu che pensavi aspettandomi?

—Piangevo.

—Povera mamma!

—La tua mamma! non hai altri, ma che ti vuole tanto bene; pel resto speriamo, non è vero? Quello solamente che tu vorrai, ma io ti voglio bene come nessuno potrà mai volertene tanto, bambina mia. Vieni di qua con me, io ti calmerò il male, poi ti metteremo a letto.

—No, andiamo dalla signora Veronica, voglio vedere Betta.

L'uscio era aperto sul pianerottolo.

—Tina!—gridò la fanciulla e corse a buttarsele con la testa contro il ventre.

Tina represse a stento un urlo di dolore chinandosi a baciarla sui capelli.

—Hai tardato, hai tardato,—diceva la piccina tirandola per la gonnella:—La mamma mi ha fatto il riso col latte, vieni a vedere. Tu che cosa mi hai portato?

—Niente.

—Cattiva!

LA TERZA GIORNATA

Il sole entrava per la finestra spalancata.

Tina, desta sino dall'alba, ne sentiva ancora il fresco sotto la pelle, e si era raggomitolata nella coperta agitando il capo sul cuscino. Un sudore le imperlava la fronte livida sotto l'ombra dei capelli arruffati.

Con ambo le mani si tastò il ventre gonfio.

Dovevano essere le dieci: qualche rumore saliva dal vicolo, qualche rondine nera passava davanti alla finestra stridendo come i pensieri che le attraversavano la mente. La camera aveva sempre lo stesso squallore, ma un profumo di muschio la riempiva: infatti tre o quattro boccette dalle forme bizzarre lucevano dinanzi allo specchietto nel mezzo del comò. Una candela di stearica rosa, bruciata a metà, era ancora sulla sedia accanto al letto e, nell'angolo, da un chiodo pendeva un abito cilestrino, con una fascia pieghettata all'orlo della sottana. Era il primo, che la sarta della signora Cesarina le avesse fatto, ma non se lo era ancora messo.

Tina si volse a guardarlo, poi udendo un piccolo passo all'uscio si levò sentoni.

—Sei tu, Betta?

Invece di rispondere, la fanciulla sporse dalla porta il capo ravvolto nel solito fazzolettone.

—Vieni, vieni.

Ma Tina si strinse con atto freddoloso la camicia sul petto dimagrato, cercando di sorridere alla piccola visitatrice incerta sulla porta.

Betta aveva sempre quel vestoncino rosso, largo, al disopra del quale il suo viso gonfio sembrava anche più ammalato: appena fu al letto, vi si arrampicò.

—Non mi toccare!—gridò Tina.

—Ti fa sempre male la pancia?

—Si.

—E io qui,—rispose premendo il fazzoletto sotto l'orecchio destro.

Erano sole. Le due mamme, uscite dalla mattina, non dovevano ritornare che a mezzogiorno se pure ritornerebbero, perchè quell'affare dei materassi non era ancora ben preciso. La signora Veronica ne aveva parlato parecchi giorni come di una piccola fortuna, nella quale avrebbe potuto mostrare la propria abilità e sperare forse qualche cosa altro. Ella affermava di sapere imbottire un materasso meglio di qualunque tappezziere; poi nessun lavoro era più divertente: si chiacchierava, si girava intorno. Invece non avrebbe accettato per tutto l'oro del mondo la fatica di battere la lana, che attossica colla polvere.

La signora Adelaide doveva aiutarla; la casa ove andavano era di gente ricca, una famiglia di beccai.

—Ti sei alzata ora?—chiese Tina.

—Sì, ma non ho voglia di star su.

—Sdraiati accanto a me.

Betta le passò una mano sul viso:

—Sudi.

—Ho la febbre.

La fanciulla non parve sorpresa; anch'ella di notte si sentiva spesso ardere e sudare, ma allora si assopiva invece di piangere.

Aveva però qualche cosa da dire.

—Ieri la mamma mi ha dato uno scappellotto.

—Ti ha fatto male?

Alla fanciulla si gonfiarono gli occhi.

—Voglio andar via, conducimi con te.

—Ma dove vuoi che andiamo?

—Non lo so: tu hai dei danari adesso, ti fai dei vestiti.

—Quello lì,—rispose Tina con lieve sorriso,—è il primo, l'altro non era mio.

—Cosa importa? prendimi con te.

—Tu sogni. Betta; io non ho che un luogo dove andare.

—Prendimi.

—Non sta a me.

—Neanche tu mi vuoi bene.

E Betta, che a forza di raggomitolarsi era salita tutta sul cuscino, sedette drizzandosi colla testa sulla testa dell'altra, e la guardava nei grandi occhi melanconici; Tina era veramente ammalata, aveva le labbra scure, riarse, e una lucentezza vitrea nell'ombra delle occhiaie.

—Non mi toccare la testa; piuttosto se hai fame va nella cucina e tira il cassetto della tavola; vi sono rimaste tre o quattro frittelle dolci. Ti piace pure il fritto di crema!

Invece nessuna delle due parlò più.

Quantunque il freddo della febbre le scemasse, Tina tremava dentro la camicia molle dal lungo sudore. E quel pensiero fisso, ostinato, che sino dall'alba le si era piantato nel mezzo della fronte, senza che potesse distogliersene, le mostrava sempre la stessa immagine: si vedeva morta sul letto, nella camera abbandonata: era sola, fredda per sempre. Poi guardò Betta, e pensò che la fanciulla, malgrado il viso gonfio, guastato dalla scrofola, vivrebbe chissà quanto. Perchè dunque aveva insistito così: «Prendimi con te?».

Improvvisamente Tina le rispose:

—Debbo uscire.

—Non resterai fuori molto?

—Non lo so.

Bettina era già scesa dal letto.

—Aiutami, non ho forza,—mormorò Tina barcollando.

Ma invece di spiccare dal muro l'abito cilestrino, prese dalla sedia quello solito: si vestiva adagio, con una stanchezza in ogni atto, che impressionò la piccina abbastanza svelta non ostante tutti i suoi mali; Tina aveva un imbambolamento quasi pauroso sulla faccia. Per pettinarsi mise lo specchietto sul davanzale della finestra sedendovi innanzi sopra una scranna spagliata, nel mezzo del sole. Allora, così in camicia, senza busto, col petto seminudo parve anche più ammalata; ella stessa n'ebbe un brivido. Betta appoggiata al telaio della finestra giocarellava con una bottiglietta di acqua profumata.

Poi disse:

—Dammela.

—Sì, non avrei tempo di adoperarla.

Ma un impeto le salì al cuore, quasi uno sgomento davanti a quella minaccia di diventare brutta.

—Come ti sembro?

—Non sei più tu.

—Adesso mi lavo, vedrai che muto colore.

Invece rimase così. Betta l'osservava colla fiala in mano pensando già come nasconderla alla mamma, che vorrebbe portargliela via.

Tina era vestita: rimise lo specchio al solito posto, si abbassò ancora sulle ginocchia per rimirarvisi, versò da un'altra bottiglia qualche goccia di odore nel fazzoletto; ma Bettina gridò tendendo le palme:

—Anche a me, anche a me.

Tina si sentì mancare sotto le gambe. Nuovamente il sudore l'inondava, ricadde sulla sedia col fazzoletto fra i denti, orribilmente pallida. Per un istante credette di doversi rimettere a letto.

—Se non tornassi più…—disse dopo alcuni minuti con voce tremante.

—Dove vai?

—Tanto deve accadere presto!

—Vuoi piangere?—l'interruppe Bettina.

—No, no, mangia le frittelle: sono nel cassetto.

—Torna presto.

—Forse.

—Va pure.

A Tina la parola parve avere un altro significato: uscì barcollando. Ma nel vicolo inondato dal sole meridiano fu peggio: un velo le si abbassò sugli occhi fasciandole tutta la testa, sulla quale le radici dei capelli tiravano dolorosamente, mentre nel ventre così teso quella cosa sembrava crescere mostruosamente. Il vicolo era quasi deserto.

Siccome non aveva l'ombrellino, sul quale appoggiarsi, si accostò istintivamente al muro: capiva che la febbre le era cresciuta, ma che avrebbe potuto egualmente arrivare alla casa della signora Cesarina. Dopo? Non lo sapeva.

I piedi invece le faceano male sull'asperità delle lastre.

Sempre tremando dal freddo si accorse di essere diventata diversa da tutti quelli che incontrava, mentre una inesprimibile stanchezza le faceva provare un senso anche più misterioso di lontananza, come se la sua casa in quel vicolo fosse già infinitamente distante. Era uscita per chiedere alla signora Cesarina quel supremo favore, poi sarebbe tornata subito a letto; ma tale pensiero era così fisso e profondo che nulla gli contrastava dentro: Perchè? Che cosa era stato? Tossiva, aveva il ventre gonfio, dolente di uno spasimo sottile, che si acuiva sotto l'anca sinistra, dacchè la febbre le era cominciata una sera sul letto assopendola. La mattina dopo seguitava ancora: e non l'aveva più lasciata.

Siccome eran sopravvenuti altri dolori di ventre, la mamma, incolpandone prima il vino poi la frutta, le aveva fatto inghiottire un'oncia di olio di ricino, ma era stato peggio: quei sintomi avevano aumentato fra i sorrisi della signora Veronica e gli scherzi di Betta.

Adesso per la strada era ripresa dalla stessa paura: dove? In qual casa volterebbe?

Una vergogna, un avvilimento anticipato, le curvava già la testa. Eppure quel sole le faceva bene riscaldandole un po' il sangue; era proprio un sole di maggio splendente nel cielo di un azzurro vivido, che sembrava palpitare; l'oro di tutta quella luce inondava l'aria, aveva dei soffi simili a quelli del vento passandole sui capelli come una carezza, mentre ella camminava sempre così piano, collo stento dei malati che debbono andarsene davvero. Tuttavia sentiva intorno il fremito dell'immensa gioia primaverile piena di scoppi, di colori, di profumi: le case parevano nuove, la gente parlava a voce più alta, con una fiamma di promesse negli occhi. Ella beveva avidamente il calore del meriggio, che le scendeva nelle vene fredde avviluppandola tutta come in un velo luminoso e leggiero. Era l'ultima volta che starebbe così nel sole, in mezzo alla folla rumoreggiante coll'impeto di una fiumana; il suo strepito l'assordava senza affaticarla, aveva delle onde e delle raffiche; improvvisamente diventava come un tuono lontano, e allora qualche strido, uno schiocco di frusta vi squillavano, le carrozze rotolavano, un fischio fuggiva rapido e un sorriso sprizzava come un lampo dagli occhi di una donna.

Ma ella non invidiava più.

La sua debolezza era così profonda che non avrebbe potuto fare un moto per mescersi a quel tumulto.

Simile alle foglie invernali, che cadendo a primavera da un tetto vagolano adagio nell'aria e sembrano anche più morte, ella andava colla veste leggiera, la testa barcollante ad ogni passo. Soltanto gli occhi cilestri le brillavano ancora di una luce acquea, come di gorgo, nel quale il cielo si rispecchiasse attenuando l'ardore del proprio azzurro. Da lungi vide il fiume biancheggiare, e più lungi ancora i colli le si confusero in un'ampia visione verde, raggiante di oro in alto. Poi una stanchezza la vinceva nuovamente, e allora guardando gli scalini delle soglie avrebbe voluto sedervisi colla testa al muro, per rimanere lì senza parlare, sul margine di quella fiumana, sotto il sole.

Quando giunse nella strada della signora Cesarina allentò ancora il passo come destandosi alla improvvisa difficoltà di quello che stava per fare. Forse ella non le avrebbe risposto che ridendo senza credere alle sue parole, ma oramai era impossibile tornare addietro. Però tremava di non trovarla sola. Vide le griglie dell'appartamento socchiuse secondo il solito: salì a stento le scale, fermandosi più volte. La porta era semiaperta.

—Ah! voi, come mai?—disse la signora Cesarina apparendo sull'uscio della cucina:—Aspettate, c'è gente. Entrate qui.

La medesima serva stava al focolare cucinando: appena furono sole, vedendola così smorta nel viso, si accostò:

—Che cosa avete, Tina?

—Sto male.

—Veggo.

La sua faccia scialba non tradiva alcuna commozione. Un grembiule bianco colle fasce sul petto e sulla schiena le copriva a mezzo quel solito abito scuro: tornò al focolare, poi disse:

—Volete una tazza di brodo? La padrona non se ne accorgerà.

—No, grazie.

—Che cosa siete dunque venuta a fare?

Ma ella credeva di averlo indovinato sapendo la miseria della fanciulla;
Tina non volle dirlo. L'altra seguitò colla stessa voce:

—C'è di là un'altra ragazza, non come voi: sarebbe bella, ma è troppo grossa. È nata apposta lei per questa vita.

Tina sentì il complimento, che la serva voleva farle, ma vedendole quella faccia di un bianco freddo come il grembiule, daccapo non potè rispondere. Nella cucina pulitissima, colle finestre socchiuse, un odore di rosolii vagava. La fanciulla aveva sete.

—Dovete curarvi,—disse l'altra.

—È impossibile.

Tina aveva abbandonato la testa sopra una mano, la serva si chinò sul fornello senza insistere davanti alla segreta tragedia della fanciulla. Nella casa silenziosa l'agiatezza regnava dappertutto: la cucina bianca aveva i mobili rossastri; a una parete brillavano di un azzurro marino le casseruole e i tegami di ferro smaltato, il focolare in mattoni rossi aveva parecchi fornelli cogli usciuoli di ferro a catenacci borchiati di ottone. Tina non fece alcun confronto colla propria condizione e quella della signora Cesarina arrivata, speculando sulla gioventù e sulla miseria di tante fanciulle, alla ricchezza, senza che mai nelle parole o negli atti le apparisse un rimorso.

Alcune voci si udirono, una di uomo, all'usciuolo, che da quella camera dava sul corridoio dirimpetto alla porta del pianerottolo; distinse un bacio fra uno scoppio di risa, poi la porta si rinchiuse e subito dopo una figura grossa e bianca, tutta bianca, in una leggera vestaglia, si precipitò saltellando nella cucina. Aveva dei magnifici capelli neri, graziosamente spettinati: un viso rosso tondo, e nel salto che fece incontro alla serva, la massa del seno le ondeggiò sotto le crespe sbuffanti della veste.

Ma vedendo Tina si arrestò.

—Hai fatto la crema?

—No.

—Via, spicciati.

La signora Cesarina entrò.

—Siete ancora qui!—disse a Tina, come se l'avesse già dimenticata; e il suo occhio esaminava le due ragazze così dissimili.

Tina si alzò: allora l'altra, vedendola in piedi, n'ebbe una trista impressione e cessò di ridere.

—Avrei da dirle una parola,—si volse Tina timidamente.

—Venite pure.

Ma Tina si fermò nel corridoio.

Adesso non sapeva più come dire: un turbamento, quasi un impeto di pianto, le salì agli occhi; il corridoio era buio, la signora Cesarina vestita di nero, dinanzi a lei, pareva un'ombra.

—Vorrei…—cominciò, e s'interruppe, come se avesse paura di essere intesa dalla cucina.

—Che cosa?

—Una corona di fiori bianchi…

L'altra la guardò stupefatta.

—Fra due o tre giorni…—si affrettò Tina:—me lo prometta.

—Ma che cosa avete?

—Sarò morta.

Poi la fanciulla disse ancora:

—La mamma non avrebbe i quattrini.

La voce dell'ammalata aveva un suono così insolito che l'altra esitò a rispondere.

—Vi sentite dunque male?

—Me lo promette?—insistè Tina pregandola cogli occhi.

L'altra ragazza bianca venne all'uscio della cucina: Tina sentì un brivido.

—Signora…—mormorò.

—Sì, sì,—rispose la signora Cesarina senza capire bene perchè acconsentisse, ma vinta da una emozione inesprimibile.

—Grazie.

—Ve ne andate così?

—Torno a letto.

Fuori, nella strada, si sentì più sollevata e si mosse lungo il muro a testa bassa, ma il dolore del ventre le diventava più acuto. Per un momento si ricordò la prima volta che delirante, ferita, era discesa a precipizio le scale della signora Cesarina vagando per le vie insino a quella chiesa silenziosa. La sua vita si era spezzata quel giorno senza che ella avesse potuto piangere; ma adesso il suo ultimo desiderio era di allungarsi nel letto per chiudere gli occhi.

—Starò meglio,—si ripeteva tratto tratto, quasi per rianimare il proprio coraggio nella lunga traversata che le rimaneva da compiere.

La folla era cresciuta: carrozze, figure, voci, tutto passava sfiorandola, senza che nel sangue le si destasse una sola vibrazione. Se avesse potuto vedersi, ne avrebbe provato una strana meraviglia, tanto era pallida e debole; le sue sottane diventavano sempre più pesanti, e il piede urtandovi le dava la sensazione di un ostacolo.

Tuttavia non aveva paura di morire.

Lo sapeva, ma non le era mai sembrato diverso dall'addormentarsi nella febbre, con una nebbia sugli occhi e una stanchezza più greve al capo. Invece, quando si destava, era sempre sorpresa dalla sensazione di un inutile ripetersi delle stesse cose. Ma non desiderava più nulla, non trovava a che pensare, a che attendere. La mamma ricominciava a lagnarsi perchè niente era ancora mutato davvero nella loro condizione; mangiavano tutti i giorni, avevano comprato qualche poco di biancheria, dei tegami, dei piatti; la mamma si era ordinato un vestito, ma la loro vita, la casa, quella camera, erano le stesse. La miseria seguitava come pel passato, senza che nessuno avesse ancora concepito sulle due donne cattivi sospetti.

Poi era venuto quel male segreto ed improvviso, che sembrava averla vuotata dentro; da parecchi giorni tossiva, e la voce le si era abbreviata.

Così camminando piano piano, con quel passo di ombra, era giunta sul ponte Santa Trinità. Laggiù una barchetta carica di donne discendeva mollemente: ella sentì un desiderio di partire per un qualche luogo ignoto, senza ritorno, portata sul silenzio argenteo del fiume, che si ripiegava senza un murmure alle sponde, mentre il sole distendeva larghe fiamme diafane sulle acque. Il suo pensiero seguì la barchetta sulla corrente muta e luminosa, che di notte fra i campi assopiti doveva parere una strada anche più misteriosa verso il mare. Tina non aveva mai visto il mare, ma le era stato detto: acqua, acqua, ancora acqua sotto il cielo, e tutto vi sparisce.

La fanciulla aveva appoggiato il gomito al parapetto del ponte, colla testa sulla mano, obliandosi, come le accadeva spesso in casa per lunghe ore sulla tavola della cucina cogli occhi fissi nel muro della casa opposta. L'acqua passava come un velo, del quale le crespe si distendessero tacitamente: ma era opaca. Che cosa vi si nascondeva sotto? Tina non aveva mai fatto un bagno, non sapeva la voluttà di sentirsi sorretta dall'acqua, quell'inesprimibile senso di qualche cosa che vi avvolge e passa mormorando lieve come il vento.

Eppure il fiume fra quei due muri di macigno non era bello.

—Andiamo,—disse senza staccarsi dal parapetto, sebbene la gente cominciasse ad osservarla.

Qualcuno, rasentandola, si era già voltato, tocco da un sospetto per quella posa di abbandono desolato. Ella invece non pensava a nulla, solamente quell'allontanarsi tacito dell'acqua sotto il ponte portava via il suo pensiero simile ad una barca vuota. Infatti non le restava quasi più niente del passato così triste e così breve. Era stata una fanciulletta malinconica, che aveva sempre ceduto come la mamma, ma in quell'ultimo olocausto, come attraverso una sanguigna lacerazione, la vita le era apparsa improvvisamente. Che cosa era? Perchè? Perchè uno sconosciuto poteva così diventare il suo padrone, tuffandole le mani nelle carni tremanti per cercarvi un piacere? Ella non faceva che soffrire, e dopo piangeva silenziosamente.

Ma un istinto l'avvertiva di tale suprema ingiustizia, sebbene il rimorso della propria debolezza le salisse dall'anima come un pianto di bambino abbandonato nella notte. La sua più insopportabile paura era appunto di sentirsi così in balìa di chiunque lo volesse, senza un rifugio, dopo che tutti se n'erano andati sorridendo. E a certi momenti, sotto il vellico di una carezza, anche le sue mani si erano tese e le sue labbra avevano tremato di un bacio, che non poteva dare, mentre il cuore, simile ad un lago percosso dal vento, le si gonfiava di una collera piena di murmuri. Quindi la sua volontà di bambina faceva ogni sforzo per mostrarsi fredda, quasi sperando così di evitare qualche cosa nella violenza, che la prostrava, e finendo invece ad accettarla coll'umile scoramento dei poveri incapaci di pensare più se stessi diversamente. Soltanto certe parole e certi atti le facevano ancora troppo male, come una ingiuria che la ferisse fin dove l'anima si nasconde; e allora aveva delle rivolte di novizia, che vorrebbe sottrarsi, mentre gli altri non capivano, o capendo troppo si precipitavano sulla sua ripugnanza come sopra un nuovo piacere coll'acre orgoglio di chi si crede sicuro per averlo pagato. Ella guardava, tremava, con un ribrezzo freddo sotto la pelle, come se quelle dita scorrendovi sopra avessero l'orribile agilità delle bisce nel sogno, quando ci pare sentirle strisciare sotto gli abiti e non possiamo gridare. E neppure la sua bocca gridava, ma tutti i suoi nervi si tendevano in uno sforzo sovrumano per resistere allo spasimo delle fitte sottili, che dal ventre le salivano sino agli occhi col guizzo di un ago, lasciandovi dentro un tremolo bagliore.

Più spesso ancora vedeva una fiammella di bragia accendersi nel fondo degli occhi e le mani tremare più convulse nell'allentarsi della stretta, come in una dolcezza di contemplazione improvvisa; qualche parola, qualche bacio le cadevano sulla bocca lenti come un fiore, una carezza s'indugiava quasi immobile e non era invece che l'agguato muto, breve, dell'ultimo impeto, senza amore, senza pietà, quasi in una frenesia omicida sul suo rantolo di agonizzante.

Ah! la morte non le pareva allora molto lontana.

Era dunque questo per lei l'unico modo di guadagnarsi la vita?

La fanciulla sospirò. Si ricordava di essersi subito ammalata diventando quasi brutta, colla paura di essere scacciata; già questa minaccia gliel'avevano fatta. Anche la signora Cesarina non voleva capire, quantunque un giorno Tina le avesse a mezze parole, piangendo, confessato di non poter resistere a simile tortura; ma la sua faccia fredda e dura aveva avuto uno strano sorriso, che tolse alla fanciulla il coraggio di seguitare. Non le credevano: ella sentiva questa spaventevole mostruosità senza intenderne il perchè. Persino la mamma adesso pareva evitarne il discorso.

Ma Tina aveva finalmente compreso tutto il suo carattere.

Ella l'aveva venduta per debolezza di donna povera, vissuta sempre senza lavorare e atterrita dall'idea di non sapere più come andare innanzi. In fondo, non era mai stata nè donna, nè madre. Le donne vere non erano certamente così, stavano più in alto: quelle come lei e la mamma dovevano invece essere ciò che gli altri vorrebbero. Eppure qualche cosa l'avvertiva che non era vero; una donna poteva sempre salvarsi anche nella più estrema miseria, quando il freddo vi piglia allo stomaco; però adesso era troppo tardi. Tutto finiva sempre nella stessa delusione per lei; nuove umiliazioni le cadevano sopra, qualche parola la feriva, mentre a testa bassa ella non pensava che al momento di tornare a casa per gittarsi sul letto fingendo di dormire.

Poi non sapeva chiedere: se le offrivano qualche cosa, accettava senza diventarne lieta, perchè non aveva nemmeno quei facili desiderii di tutte le fanciulle povere appena arrivano a possedere del danaro.

Tuttavia la dicevano buona per la sua immutabile indifferenza anche coi vecchi. Era sempre la stessa fanciulla, pallida, ubbidiente, che sarebbe stata incantevole se una qualunque gioia della vita avesse rianimata quella sua grazia primaticcia. Ma ella non s'interessava di nulla e di nessuno, non avendo mai ricevuto una buona parola da quella sera che egli, il primo, era fuggito gridando: Sàlvati. Come si chiamava? Che cosa poteva essere l'amore, del quale tutte le donne parlavano? Perchè non le era mai apparso? Qualche volta, come in un sogno di favola, ella pure aveva pensato che un bel giovinetto venisse a portarla via, per una qualche verde campagna, senza chiederle quello che tutta la gente esigeva così dolorosamente; silenziosa, tremante, la fanciulla se ne sarebbe accontentata, riamandolo con una devozione di bambina. Altre volte invece la coglieva repentino e convulso il pensiero di avere già nel ventre gonfio e doloroso una piccola creatura destinata a soffrire come lei insino a che non fosse morta. Ma di questo dubbio troppo atroce ella trionfava subito sapendo di morire.

N'era certa; da tre o quattro giorni non mangiava più.

Un monello la tirò per la gonna, fuggendo con un largo sorriso sulla faccia sporca di fuliggine.

Tina si raddrizzò sul parapetto collo sguardo incantato nella lontananza del fiume: era dunque passato molto tempo dacchè contemplava distrattamente l'acqua fuggire sotto l'arco del ponte?

Con un gesto vago si mise una mano sugli occhi, e il cuore le si strinse in una emozione di addio. Al di là di tutti i ponti, oltre i muraglioni del Lungarno, i colli erano diventati cilestri nelle cime sotto il sole alto in uno splendore di fornace, che le abbagliava le pupille.

Ma ella si sentiva già fuori del paesaggio; quel parapetto le diede una sensazione di confine.

Salutò.

La sua casa non era molto lontana. Col cuore che le batteva spaventosamente per la fatica di fare le scale, si trovò fra le due porte aperte sul pianerottolo: Betta era di là, nella propria camera. Come un'ombra passò dalla cucina nell'altra stanza, si spogliò e si mise a letto; porte e finestre rimanevano aperte. Alcune mosche ronzavano nel sole, qualche rondine passava come un baleno nero davanti alla finestra.

Distesa sotto la coperta, col volto mezzo nascosto, Tina aveva chiuso gli occhi. La febbre, cresciuta nello sforzo del viaggio, le faceva battere le tempia e girare il letto colla sensazione che tratto tratto si capovolgesse, e allora per tentare di dormire sprofondò tutta la faccia nel cuscino, cercando di rimanere immobile.

L'ore passavano. Betta tornò col medesimo passo silenziosa a sporgere la testa dalla porta, attese qualche minuto, poi la sua faccia si fece grave.

Poco dopo il sole si ritirò dalla camera: i suoi ultimi raggi sul pavimento parvero come una larga pezza di damasco giallo, che una mano invisibile ritraesse lentamente su pel davanzale della finestra, mentre in alto il sereno, attenuando il proprio splendore, diventava più puro. Un'ombra lieve usciva dagli angoli della camera e d'intorno ai vecchi mobili, il colore del soffitto si oscurava. L'aria si fece fredda.

Le mosche non ronzavano più, e fuori le rondini nella malinconia del tramonto imminente gittavano stridi più acuti.

Molte finestre sbatterono, il murmure dei passi cresceva nel vicolo.

—Perchè ti sei coricata?—chiese la mamma.

Tina aprì gli occhi.

—Bettina mi ha detto che sei andata dalla signora Cesarina; le hai chiesto gli ultimi otto franchi, che ancora ci deve?

Tina ebbe un atto come di chi improvvisamente ricordi.

—Ah! dovevo immaginarmelo,—l'altra esclamò con un tremito di collera nella voce:—sempre così colle tue delicatezze! Eppure ti avevo detto più volte che in casa non ci restava più danaro.

Allora la fanciulla mormorò:

—Mi sento male.

—Che cosa hai?

E levandosi dalla sedia piegò la faccia a contemplare la figlia. Evidentemente Tina era ammalata: una febbre fredda le gelava la pelle bagnata di un sudore simile alla umidità di certi tronchi alla fine d'autunno.

—Ma tu hai la febbre; mio Dio! come si fa adesso?

—Non importa.

—No, aspetta: non è la prima volta che te la senti.

—Non mi lascerà più.

E l'accento aveva una così funebre certezza, che un medesimo freddo soffiò per le vene delle due donne: infatti il volto di Tina aveva già sotto quel sudore l'indefinibile aridezza delle piante che si essiccano.

Subitamente la mamma gridò:

—Bisogna chiamare il medico!

Tina ebbe un brusco sobbalzo.

—Senti, adesso vado io dalla signora Cesarina a farmi dare quegli otto franchi che ci deve: me li darà: sono così esse, ma bisogna farsi pagare. Tu cerca di stare tranquilla, non sarà nulla, un po' di strapazzo, che ti sei buscato negli ultimi giorni, ma che ti passerà presto. Chiameremo anche la signora Veronica, c'ingegneremo; se non abbiamo quattrini si farà alla meglio, non aver paura. Forse la signora Cesarina ci aiuterà.

—Sono tutta ammalata.

—Dimmi, dimmi.

—Il ventre mi tira come se nel mezzo vi fosse una corda tesa; ma non è solo questo. Ho freddo dentro.

—Sfido io, non mangi. Chiameremo il medico.

—No!—proruppe Tina violentemente.

—Mio Dio! Ecco come tu fai sempre. Dimmi il perchè.

Sembrò che Tina esitasse, poi un impeto febbrile le fece sollevare la testa: gli occhi cilestri si erano accesi.

—Siete voi che mi avete ridotta così: non voglio che nessuno mi vegga.

—Che cosa dici?

—Non mi capite dunque?—gridò scoppiando finalmente in singhiozzi; poi si tirò il lenzuolo sul capo.

La mamma rimaneva lì a guardarla sotto quel cencio poco bianco come se fosse morta; poi mormorò dogliosamente:

—Tina!

L'altra scosse la testa sotto il lenzuolo.

LA QUARTA GIORNATA

La mamma ascoltava distratta.

—Vedete,—diceva la signora Veronica,—Tina non era fatta per una simile vita: io l'ho sempre pensato.

L'altra, ricordando come i suoi suggerimenti fossero stati più efficaci dei propri, si volse nervosamente; ma la signora Veronica non sentì la meraviglia di quell'occhiata. Il suo volto grasso, che pareva sempre un po' sudicio, aveva la solita calma.

—Non si può nulla quando la vita è così; voi avevate delle buone intenzioni per vostra figlia, che non sapeva far nulla per guadagnarsi il pane: poi come guadagnarlo? Si ha un bel dire che una donna volendo può sostenersi; io lo so per pratica, ne ho viste tante. Fate la serva o andate a bottega ammazzandovi a lavorare, e non guadagnate abbastanza se la famiglia non vi aiuta: che cosa può guadagnare una ragazza per settimana? Bisogna che si vesta, che abbia delle scarpe, un po' di biancheria per potersi mostrare… E poi si è giovani, il sangue si riscalda, arriva qualcuno, che vi guarda; tant'è dunque farlo prima, cercando di cavarne una posizione.

—Ne siete persuasa anche voi.

—Sciaguratamente.

—Tina era bella, poteva fare fortuna.

—Non lo credo.

La mamma sospirò.

—Volete che ve lo dica? Ecco, Ella non era nata per questo: scommetto che non ha mai sentito come me e come voi. La piccina soffriva del vostro stesso male.

—Questa è stata la causa di tutte le mie disgrazie.

Una profonda compassione di se stessa la faceva tremare.

—Non ci pensate. Già non ho mai notato in lei quello che si vede in tutte le ragazze: non guardava mai in faccia un uomo, era un povero sorbetto la vostra Tina. Adesso non vuole il medico per paura che nell'esaminarla possa indovinare il resto. È una fantasia di educanda; conobbi una monaca, che volle morire così.

—Che cosa dovevo dunque fare nel mio caso?

La signora Veronica si strinse nelle spalle.

—Voi per Betta non vi troverete a questo.

—Non può vivere; non vedete com'è? Ma la signora Cesarina è una indegna: doveva almeno darvi tutti quegli otto franchi.

—Non ho osato insistere.

—Vi conosco. Qualche cosa caveremo dal curato; è un buon uomo, bisogna, chiamarlo.

—Ma è dunque la morte?

—Aspettate: io credo che sia tisica, ma egli potrebbe anche persuadere Tina, confessandola, perchè bisogna che si confessi. Voi non le avete insegnato nulla, ma sono sicura che Tina avrà piacere di morire nella religione.

Betta entrò.

—Ha sete,—disse,—vuole un bicchiere d'acqua.

—Andiamo di là.

Tina colla testa appoggiata al muro guardava nel vuoto.

La signora Veronica aveva ragione. Tina era tisica; forse la malattia covava da molto tempo, ma quell'olocausto era bastato a determinare l'esplosione con una peritonite rapida e violenta, che bruciava tutto quel corpo in una fiamma invisibile. Adesso il suo volto scarno pareva che se ne illuminasse internamente, perchè aveva acquistato un insolito splendore. Da tre giorni non mangiava più, bevendo appena qualche bicchiere d'acqua imbiancata col latte, e le sue parole si erano fatte più rare.

La morte compiva già l'ultimo desiderio della fanciulla, ricomponendole nel proprio incanto quella verginea bellezza quasi di fiore non colto.

—Ma perchè non vuoi il medico?!—esclamò la mamma.

—È un amico del curato, io lo conosco; cominciamo dal chiamare questo. Date retta a me,—soggiunse la signora Veronica:—è un bel vecchio, parla bene.

—Lo sanno i casigliani che sono ammalata?

—Sì. Anche stamane le Arrighi mi hanno fermata per chiedermi vostre notizie: siete simpatica a tutti. Siate sicura, nessuno ha ancora saputo nulla.

Un sorriso pallido passò sulle labbra dell'inferma, poi fece un gesto alla mamma:

—Dammi il vestito nuovo.

—Che cosa vuoi farne? Non ti alzerai già?

—Datemelo, datemelo.

Anche la signora Veronica si mosse. Quando l'ebbero disteso sul letto, aspettarono, il corsetto colle maniche gonfie stringeva al disopra della coperta il ventre di Tina, e la sottana aveva anch'essa uno strano, vivente abbandono sul suo corpo. Poi la fanciulla disse lentamente:

—Bisogna farne un bel vestone a Betta.

Questa battè le mani gioiosamente.

—Sarebbe meglio venderlo,—osservò la signora Veronica.

—No, no,—proruppe Betta.

Rimasero tutte un po' incerte guardandosi; finalmente la mamma disse con voce strozzata:

—Che cosa ti metterai, quando ti alzi?

Ma il volto di Tina si era oscurato; respinse l'abito con un gesto.

—Portatelo via, non voglio più vederlo.

Con una occhiata la mamma e la signora Veronica s'intesero: quella avrebbe ceduto secondo il solito, ma questa voleva aspettare per trarne un più ragionevole profitto. Quindi volgendosi a Tina, carezzevolmente disse:

—Ne riparleremo domani, perchè ci vorrà forse qualcuno che ci aiuti. Intanto io vi ringrazio, mia buona Tina; ma non volete proprio darmi retta? Domani faccio venire anche don Pietro, eh?

—Perchè non stasera, se deve venire?

—Allora vado subito.

Tina non rispose.

Betta era andata a sedersi presso la finestra; il suo viso gonfio e giallo esprimeva una collera intelligente, che non avrebbe così presto perdonato. Si sentiva derubata e se la pigliava anche con Tina perchè non sapeva assicurarle il dono dopo averglielo fatto: poi si voltò al muro per non mostrare di piangere. Ma qualche singhiozzo le stringeva le spalle.

Il silenzio durò lungamente; s'intese la signora Veronica chiudere a chiave la porta e discendere frettolosamente per le scale, qualche grido veniva dal vicolo, nel quale una biroccia si era fermata.

Le sonagliere tintinnavano.

Tina disse piano alla mamma:

—Nemmeno tu lo conosci?

—E un buonissimo uomo.

—Dovrò dirgli tutto?

—Si,—mormorò l'altra, mettendosi la mano sulla bocca per frenare il singulto.

Tina rimaneva perplessa dinanzi alla necessità di questa confessione, della quale non intendeva ancora il divino motivo, ma il suo cuore si commosse al dolore della mamma; poi si accorse che anche Betta piangeva, e allora chiuse gli occhi, pensando che in quel grande letto, così povero e sudicio, avrebbe fatto al vecchio prete una ben cattiva impressione.

* * *

Don Pietro non arrivò che al principio della notte. La porta era aperta, la signora Veronica, la mamma, Betta stavano nella cucina.

Il vecchio prete aveva bussato leggermente.

—Entri, entri,—rispose la signora Veronica, alzandosi precipitosamente per andargli incontro coi segni del più profondo rispetto; ma il prete pareva imbarazzato, la sua testa biancheggiava nell'ombra.

—Ecco la mamma,—disse subito la signora Veronica.

Questa lo guardava cogli occhi sgomenti; don Pietro chiese:

—Sta male?

—Al solito,—rispose la signora Veronica:—vuole entrare subito?

E prese dal tavolo la candela.

—Dorme,—disse la mamma.

—Pare, ma non lo credo,—ribattè la signora Veronica.

Nella camera passò anche Betta, Tina non dormiva.

Il vecchio si accostò al letto: adesso si vedeva la sua faccia scarna, illuminata da due occhi chiari, che parevano tristi; i suoi abiti erano trasandati, e due lunghe ciocche di capelli bianchi gli si arricciavano alle orecchie.

—Quanto tempo è che siete ammalata, ragazza mia?—cominciò con voce insinuante, mentre la signora Veronica gli metteva dietro la sedia, sulla quale per solito stava la candela; poi andò a porre questa sul comò.

Tina non provò alcun sbigottimento, ma i suoi occhi non lasciavano il viso del vecchio.

—Siete ben giovane!—questi disse.

—Ho diciassette anni.

—Bisogna sperare; il signore ci prova spesso prima di chiamarci; si deve però essere pronti ad accettare tutto ciò che egli vuole.

La signora Veronica e la mamma si consultarono con uno sguardo: questa stava per piangere, l'altra le fece cenno di ritirarsi.

—Vieni via, Betta,—si volse alla fanciulla, che appoggiata ai piedi del letto tirava per la coperta.

Tina avrebbe voluto dir loro di rimanere, ma una sensazione improvvisa glielo impedì: si strinse nella coperta riabbassando la testa sul cuscino senza nessuna vergogna che fosse così sudicio. Le griglie erano aperte e pei vetri si vedeva al di fuori il chiarore della notte. Poi intesero la voce della signora Veronica, che avrebbe voluto condurre la mamma nelle proprie stanze, ma questa rispondeva:

—No, no.

Non si udì più nulla; l'uscio della camera era chiuso.

Egli si era seduto a capo del letto, quasi aspettando a testa bassa; la barba non rasa da qualche giorno gli rendeva la faccia più vecchia, ma la sua figura e il suo atteggiamento esprimevano quella pazienza, che sa attendere per poter consolare.

—Che cosa mi dirà?—pensava Tina senza riuscire ad immaginarsi come gli avrebbe risposto.

—Ebbene, ragazza mia, non sono venuto subito perchè dovevo passare da un altro ammalato; eccomi qui da voi. Vi sentite molto male?

—No.

—Speriamo dunque, siete tanto giovane! So che avete sofferto.

—La signora Veronica le ha detto tutto?—esclamò precipitosamente Tina.

—Mi ha parlato della vostra disgrazia; non ve ne lagnate, ella non aveva che delle buone intenzioni.

—Lei! Me lo dica: che cosa le ha raccontato?

Il vecchio parve impacciato, la fanciulla seguitò smaniosa:

—La conosco: non avrà accusato che la mamma, mentre invece fu lei a spingermi, lei che fece venire a casa quella donna; poi mi accompagnarono là. Adesso per la paura che si sappia vuol dare la colpa a noi.

Un nodo di tosse le soffocò la parola, ma i suoi occhi brillavano di collera; poi un'ombra le cadde improvvisamente sul volto.

—Mi dica, mi dica; lei sa tutto.

—Perchè vi affliggete così?

—Morirò.

—Bisogna sperare; nè io nè voi conosciamo la volontà del Signore. Ho saputo la vostra disgrazia, e me ne sono addolorato: vi chiamate Tina, non è vero? Quello che vi è accaduto fu veramente doloroso, perchè non avreste voluto commetterlo, lo sento.

Tina ebbe un singulto.

—La mamma era ammalata: avevamo fame.

—Perchè non vi rivolgeste a me, povera fanciulla?

—A lei?

—Coll'aiuto di Dio, si può sempre sostenere quelli che pericolano. Io non lo sapevo, sono stato ammalato un pezzo. Dite, Tina, vi hanno cresimata?

—Sì, da bambina.

—E dopo?

—Nulla.

—Non andavate a messa colla mamma?

—Quasi mai.

—Però, potendo, vi sareste andata?

—Non lo so,—rispose Tina ingenuamente.

—Bisogna desiderarlo: senza la grazia di Dio e senza il sostegno delle pratiche religiose un'anima non può salvarsi: ma adesso voi volete, non è vero? compiere gli atti necessarî della nostra santa religione? Dopo vi sentirete meglio anche nel corpo; io sono qui per voi, vi saranno rimessi tutti i peccati, perchè avete molto sofferto, e forse non sapevate bene la loro importanza, Dio è buono.

Parlavano nella penombra agitata dalla fiamma della candela sul comò: a poco a poco le loro teste si erano avvicinate, il vecchio prete sempre colle grosse mani sui ginocchi si curvò sino quasi a toccare col mento la coperta.

—Dite con me: Dio è buono.

E attese.

—È buono, è buono. Egli ha sofferto per i nostri peccati, che avrebbe avuto il diritto di punire senza misericordia, e invece consentì a farsi uomo e a morire innocente sulla croce per insegnarci a sopportare anche quello che nella nostra misera vanità non ci parrebbe dovuto. Egli non fa differenza fra il ricco e il povero, è morto per tutti, ci ama tutti di eguale amore. Noi dobbiamo imitarlo da lontano nella misura delle nostre forze, senza ribellarci mai ai decreti misteriosi della sua volontà. Dite con me: Mio Dio, abbiate pietà di me, voi che siete buono.

—Buono?

—Sì.

—Ma che cosa avevo fatto io per essere trattata così?

Il vecchio rialzò la testa; sulla faccia gli apparve una improvvisa severità.

—Siete voi davvero innocente?

—No, io non volevo: è stato per non far patire la fame a mia madre.

—C'erano altri mezzi.

—Me lo dicono adesso.

Succedette una pausa: la fanciulla vide che alzava una mano per stringersi la fronte, la mano tremava. Ella sentiva soffrire quel vecchio, quantunque la sua ammonizione le fosse strisciata sull'anima senza entrarvi: era la prima volta che qualcuno le parlava così.

Che cosa doveva fare? Che si voleva ancora da lei?

—Ditemi,—riprese il vecchio,—non mi avete fatto chiamare per confessarvi?

—È stata la signora Veronica.

—Lei, ma e voi? Siete disposta a perdonare?

—A chi?

—A tutti, cominciando da vostra madre?

—Ma io le voglio bene.

—E anche a quell'altra donna?

—La signora Cesarina? No, no.

—Voi non siete innocente, perchè avevate capito quello che vi consigliavano di fare, e vi ci siete piegata,—egli disse severamente:—Alla vostra età è pur troppo quasi sempre troppo tardi per l'innocenza. Se aveste avuto meno di dieci anni…

—Ah!—proruppe Tina:—ho saputo dalla signora Cesarina che anche delle bambine erano state trattate così. Perchè Dio dunque lo permette?

—La sua giustizia è un mistero.

—Povere bambine! Che cosa avevano fatto?

—Voi vi ribellate, vorreste sapere quello che la nostra mente deve ignorare; Dio permette il male…

—Contro gli innocenti, i bambini? No, se io avessi un bambino non lo permetterei: bisogna essere cattivi per trattare così delle creature che non hanno fatto nulla.

—Non piangete, via, io sono venuto qui per consolarvi. Non sono che un vecchio, datemi retta, lasciate che vi riconduca al Signore: sentirete subito la pace nel cuore. Se siete innocente, vi sarà più facile perdonare ed essere perdonata; ecco, cercate di riordinare la vostra coscienza: la confessione bisogna farla in regola.

—Lei lo ha saputo dalla signora Veronica.

—Ma voi, voi dovete dire tutto sino da quando vi potete ricordare.

E successe un'altra pausa più lunga.

Tina non pensava che al racconto della signora Veronica per penetrarne il motivo. Evidentemente costei aveva avuto una paura che, imparando tutto da altri, don Pietro la credesse complice; ma perchè insistere tanto per chiamarlo, mentre nè la mamma nè lei ci pensavano? La sua testa dolente soccombeva un'altra volta sotto il peso di queste domande, poi la febbre la scrollava: un sudore caldo le invischiava la camicia sulla pelle, mettendole come una gomma sulle labbra.

Era sfinita.

Il vecchio se ne accorse.

—Datemi una mano che vi senta il polso: so che non avete voluto chiamare il medico.

—Non lo voglio.

Ma tese la mano sinistra fuori del lenzuolo.

—Avete una febbre alta; se io conoscessi un medico vecchio come me, veramente buono, lo accettereste?

—No.

—Vedete, Tina, io vi capisco bene; viene da un sentimento cristiano questa ripugnanza a lasciarvi vedere, non bisogna però esagerare nemmeno in questo.

Ma s'interruppe.

Lo sguardo ardente della fanciulla aveva una luce di astro lontano. Egli mormorò ancora alcune parole, poi inginocchiandosi appoggiò i gomiti sul letto e congiunse le mani: fuori dalle maniche le mani parevano più grandi, la sua faccia non si vedeva.

—Dite con me: Madonna santissima, aiutatemi perchè voglio tornare a voi come le vergini, che proteggete.

Tina ripetè anch'essa:

—Madonna santissima…

—Sì, Madonna santissima, io avrei voluto vivere pura come voi, ma se non ho saputo resistere alla tentazione del peccato, soffiate voi col vostro alito sulla mia anima, affinchè si rischiari e vegga le vie del Signore. Si, ripetete ancora con me: Ave Maria, Virgo virginum. Ella è la santa dei bambini e delle vergini, che sa tutti i segreti del dolore, lei sola può dire alla morte di cancellare dalla vostra carne la macchia del peccato. Ave, Maria degli innocenti e degli abbandonati; voi siete la grande stella dei naufraghi, che non veggono più la sponda, voi siete la stella dei moribondi, che chiudono gli occhi nel vostro sorriso per riaprirli alla verità eterna di Dio. Ave Maria!

Poi si rialzò faticosamente, le fece un segno di croce sulla testa e disse:

—Tornerò domani sera: pregate la Madonna, domani sera sono sicuro che vi confesserete.

Ma Tina vedendo che stava per partire, frenò a stento uno scoppio di lagrime: perchè se ne andava? Dopo sarebbe più sola. Egli aveva parlato con una tenerezza, che nemmeno la mamma le aveva mai mostrato nei più tristi abbandoni. Come s'interessava tanto di lei, che non aveva mai veduta? Improvvisamente le parve di tornare bambina e provò una soggezione piena di fiducia e di rammarico: qualunque cosa le avesse chiesto in quel momento l'avrebbe fatta.

—Riposate, figlia mia, il sonno vi farà bene; domani sera non mancherò.

—Venga, venga,—proruppe quasi la fanciulla.

Il vecchio le pose ancora una mano sulla fronte, e andò a prendere la candela per uscire.

—Buona notte, Tina.

—Buona notte,—rispose la fanciulla, lasciandosi finalmente cadere le lagrime dagli occhi dentro l'ombra della camera.

Don Pietro posò il candeliere sulla tavola della cucina e si rimise automaticamente il cappello; la cucina pareva vuota, ma la figura della mamma gli si parò innanzi dal sofà: egli vide la sua faccia emaciata, col gran naso di una fisonomia, che altra volta aveva dovuto essere bella ed altera, ma adesso l'umiltà ne aveva cancellata pressocchè ogni traccia.

Stava confusa.

Il prete mise la mano nella tasca della veste per trarne due lire di argento, che sapeva di avere, e gliele porse.

—Come ha trovato Tina? Morirà?—chiese l'altra tremando.

—Sta male certamente: tornerò domani sera, non credo ad un pericolo imminente, ma pregate anche voi perchè vostra figlia si confessi. La sua anima è rimasta buona senza gli insegnamenti della religione. Tornerò domani sera, andate di là.

E senza attendere risposta si avviò per l'altra stanzetta; la signora Adelaide non sapeva che fare, se ubbidire subito o accompagnarlo per le scale colla candela, ma intese il passo della signora Veronica sul pianerottolo.

Il vecchio era già all'uscio.

—Buona sera, signor don Pietro, aspetti,—disse la signora
Veronica:—ora scendo con lei per le scale col lume.

—No,—rispose bruscamente.

Appena la signora Adelaide entrò colla candela nella camera di Tina, questa esclamò:

—Non voglio vederla, sai!

—Chi?

—La signora Veronica. Va subito a chiudere la porta e vieni a letto.

Due ore dopo dormivano.

* * *

E le pareva che la signora Veronica l'accompagnasse per Lungarno verso la chiesa di don Pietro.

Il meriggio scottava, ma camminando a testa bassa Tina non si guardava che il ventre enorme sui fianchi dolenti: e la sua gravidanza era così inoltrata che ne sentiva a ogni momento le doglie in una agonia delirante di paura, mentre un freddo le gelava la schiena anche sotto quei raggi del sole. Ansante, cogli occhi gonfi, cercava di evitare le occhiate della gente, che si voltava a guardare dietro con quel sorriso così crudele per le fanciulle, quando non possono più nascondere la propria disgrazia. Ma la signora Veronica, affrettandosi silenziosamente, la tirava per mano come una bambina sorpresa in fallo e condotta al castigo. Giravano da un pezzo. Nella folla oscura la ressa aumentava, e ogni tanto ondeggiavano larghi barbagli di fiamme e voci lontane gridavano. Poi a una svolta vide improvvisamente il vecchio prete sulla soglia della chiesa, senza cappello in testa.

I suoi occhi dardeggiavano.

—Ah!—gridò con un gesto d'impazienza.

Allora Tina si era voltata per fuggire.

—Dove vorreste andare?—chiese don Pietro avanzandosi:—è un'ora che aspetto.

E Tina lo seguì senza capire come la signora Veronica fosse sparita. Poco dopo si accorse di essere in un corridoio basso, fra due muri umidi: l'aria si faceva sempre più fredda e l'oscurità aumentava. Benchè camminasse adagio, il vecchio batteva così duramente coi tacchi sulle lastre del pavimento che l'eco ne ripeteva ogni percossa, mentre un altro passo misterioso incalzava dietro le loro spalle. Chi era? Tina tentò di rivolgere il capo, ma non vi riuscì: una forza irresistibile la costringeva a seguire don Pietro sotto quel corridoio, che si perdeva in un'ombra senza fine. Un freddo le veniva dall'umidità dei muri rigati da lunghi goccioloni. Poi don Pietro si cacciò a sinistra sotto una porticina, ed entrarono nella chiesa. Era enorme; una lampada sospesa per una fune ardeva davanti all'altare maggiore, al di sopra della balaustra. Tina non conosceva quella chiesa; le parve vuota, solamente notò che nel primo pilastro a destra della grande navata era scavato un buco simile ad una nicchia; e intorno vi rimanevano ancora alcuni mucchi di mattoni e un cassetto da muratore pieno di calce molle.

—Inginocchiatevi lì dentro,—disse don Pietro.

Tina dovette scavalcare quei mattoni per entrare nella nicchia, ma si avvide subito che non era abbastanza profonda per tenervi dentro le gambe: però ubbidì. Volse la schiena al muro e piano piano piegò le ginocchia reggendosi con ambo le mani il ventre per diminuire il dolore del suo peso.

Vicino a lei don Pietro, colla fronte sul marmo della balaustra, mormorava a mezza voce una preghiera.

Passarono alcuni minuti.

Ella si ricordò dell'altra piccola chiesa, nella quale si era rifugiata fuggendo dalla casa della signora Cesarina col ventre ferito; ma un dolore anche più acuto, uno smarrimento più profondo, la facevano adesso guardare più disperatamente in quell'agonia di diventare madre da un momento all'altro. E il suo cuore si gonfiò. Lunghe fitte ghiacciate le salivano dalle ginocchia su per le reni, una fiamma sembrava bruciarle il ventre diventato così greve che le mani le tremavano indarno nello sforzo di sostenerlo. Estenuata, febbricitante, tentò di slacciarsi la sottana, come se il suo cordone troppo stretto dovesse far male anche al bambino, ma le dita non vi riuscirono e il bambino si agitò. Le parve di sentir battere le sue piccole mani smaniose. Mio Dio! come fare? Che cosa aspettava in quella nicchia vicino a don Pietro sempre così curvo sulla balaustra quasi nello sforzo di una preghiera?

Infatti egli percoteva tratto tratto la fronte sul marmo del davanzale.

—Signore, sia fatta la vostra volontà,—proruppe finalmente raddrizzandosi.

La sua faccia era ridivenuta mite e stanca come la sera innanzi, quando le stava al capezzale del letto.

—Volete confessarvi, ragazza mia?—disse lentamente.

Ma, come allora, Tina non seppe rispondere.

—Fra poco arriverà.

—Chi?

—Il muratore.

—Il muratore!—ripetè senza capire.

E udì nuovamente quei passi avvicinarsi dal fondo della chiesa. Le pareva che tutta l'ombra ne tremasse agitando il lucignolo della lampada dentro quella coppa rossa, come se un sangue la riempisse. Anche il vecchio prete si era rivoltato e i suoi occhi stavano fissi.

—Badate: i minuti vi sono contati,—disse ancora.

Ella invece ascoltava con crescente terrore le battute misteriose di quei passi avvicinarsi nell'ombra: la chiesa ne tremava. Colle mani strette convulsamente sul ventre, la fanciulla agitò la testa guardando il vecchio prete immobile come una statua; il suo volto era così triste che le fece male, poi lo intese ancora ripetere:

—Signore, sia fatta la vostra volontà.

Don Pietro si avanzò sino tra i mattoni e le stese ambo le mani sul capo.

Adesso anche ella aspettava coll'anima tesa delirantemente: un sudore gelato le colava dalla fronte, le tempie le battevano da spezzarsi. Con uno sforzo supremo, quasi attratta da quelle due mani aperte sulla sua testa, si alzò; ma per una sensazione improvvisa, inesplicabile, si accorse di essere mal vestita come stava per solito in casa. I piedi le tremavano dentro le vecchie scarpe, e la sottana, diventata più corta su quella rotondità del ventre, le lasciava scoperti gli stinchi.

Non aveva nemmeno le calze.

Vacillò, e dentro quella nicchia troppo stretta, nella quale le sue spalle stentavano ad entrare, appoggiò la testa al muro chiudendo gli occhi. Istantaneamente tutto disparve: il suo corpo lieve come la sua anima calava nell'ombra di un abisso con un ondulamento di nuvola nella notte; non si ricordava più di nulla, sentendo soltanto di essere ancora ritta, col capo inclinato sulla spalla, nell'ultimo atteggiamento. L'abisso era profondo. Lungamente ella vi discese senza che una curiosità si movesse nel suo pensiero o una immagine nella sua memoria; l'ombra le si stringeva intorno come un velo in pieghe tacite e molli, e un alito fresco vi passava attraverso sfiorandole il viso.

Quanto durò così?

Non avrebbe potuto dirlo, ma un urto violento l'arrestò, e si vide sulla soglia di una porta, nel mezzo della quale era inchiodata una croce bianca. Uno spasimo le contorse il ventre, rinnovandole tutti i terrori nella necessità di fuggire davanti al nuovo ostacolo, giacchè quei passi si avvicinavano nuovamente con una cadenza più lenta, spaventevole. Tese l'orecchio, poi con ambo le mani tentò di scrollare la porta gridando:

—Mamma! mamma!

Invece la voce le si spense in un soffio sulle labbra, e le mani le caddero intirizzite dal freddo, che fischiava fra i battenti della porta: tutto il suo volto n'era gelato.

E rivolgendosi scorse un uomo in ginocchio, che si allungava per prendere qualche cosa nell'ombra: erano quegli stessi mattoni e lo stesso cassetto pieno di calce, che aveva già veduto nella chiesa davanti alla nicchia. Le venne meno il respiro. Colla schiena appoggiata alla porta guardava immobile quel fantasma alzare silenziosamente uno ad uno i mattoni per allinearli ai suoi piedi chiudendo il vano della soglia. I mattoni erano rossi, enormi. Poi il fantasma piantò la cazzuola dentro la calce, e allora Tina sentì che la prima fila le toccava la punta dei piedi appoggiati col garretto alla porta.

Finalmente credette di comprendere.

Un altro grido lungo, disperato, le salì indarno dall'anima. Il muratore, annunziato da don Pietro, l'aveva raggiunta a quella porta chiusa da una croce bianca: ella aveva udito tremando i suoi passi dal fondo del corridoio, nell'ombra della chiesa, sempre più vicini, con una cadenza lenta ed immutabile. Invano, senza ricordarne il modo, era fuggita da quella nicchia giù per una tenebra molle come un fumo: era inutile, era tardi. Una seconda fila di mattoni le arrivava già al disopra degli stinchi; tratto tratto sentiva un colpo secco della cazzuola, che li allineava, mentre quella testa bassa si moveva silenziosamente nel lavoro. Chi dunque l'aveva condannata ad essere murata viva col bambino nel ventre? Malgrado il terrore, che la paralizzava, tentò di piegarsi innanzi per spiccare un salto, ma non le riuscì nemmeno di staccare la testa dalla croce.

Un altro freddo le saliva per gli stinchi già coperti dal muro.

E il muro cresceva.

Con una leggerezza meravigliosa il muratore stendeva colla cazzuola la calce sulle costole dei mattoni prima di alzarli sulla cortina, senza levare mai il capo quasi interamente calvo e che in quella oscurità aveva come un luccicore di teschio. Nullameno a Tina parve di riconoscerlo, ma incollata sulla porta guardava senza gridare e senza piangere. Il suo pensiero irrigidito dal freddo della morte era diventato lucido come un ghiaccio nell'ombra, i suoi occhi non tremavano più.

Poco dopo un contatto la fece trasalire; era il primo mattone, poi un altro, un altro ancora, rapidamente, e il loro spigolo s'imprimeva appena sulla convessità del ventre tirando su la sottana dagli stinchi. Mio Dio! Mio Dio! La fila non avrebbe potuto più alzarsi senza schiacciarlo nella poca profondità di quel vano. No, no, era impossibile, non potevano schiacciarle il ventre prima di seppellirla viva, perchè avrebbero schiacciato anche il suo bambino. Egli era più innocente di lei; perchè si voleva fare così? E Tina lo sentiva contorcersi disperatamente allungando le manine per arrivarle al cuore, mentre un pianto gli usciva dagli occhi chiusi e la bocca gli si raggrinziva nell'orrore della paura.

Ma dentro questa visione, che le sorgeva dalle viscere, Tina vedeva sempre quel fantasma curvo sul proprio lavoro affrettarsi silenziosamente.

A un suo moto rabbrividì.

Poi quella testa si alzò sfiorandole quasi il ventre per cominciare la nuova fila, e allora Tina riconobbe la faccia di colui, che pel primo l'aveva fatta gridare nella camera della signora Cesarina: erano gli stessi occhi freddi, quei baffi rossi, sotto i quali il sorriso aveva una piega così cattiva.

Tutto il sangue le rifluì al cuore in una convulsione suprema, che strappò un urlo anche al bambino.

Ella se lo intese nel cervello.

Lui, lui, era lui, il padre!

Ma nell'orrore ella non poteva nè gridare, nè muoversi. Una forza d'incubo la teneva immobile contro quella porta, della quale la croce bianca le entrava dolorosamente fra i capelli irti nel raccapriccio; quel freddo, fischiando sempre dalla fessura dei battenti, le aveva fatto diventare la pelle dura come un vetro. Con uno sforzo inesprimibile tentò di staccare una mano per respingere il mattone, che già stava per schiacciarle il ventre, ma una doglia più tremenda sembrò che glielo aprisse, poi un peso immane, qualche cosa le squarciò la carne e, penetrandole nelle viscere, spezzò anche il bambino.

—Mamma, mamma!—ella potè gridare veramente.

Questa si destò spaventata dall'accento delirante e dal soprassalto nervoso della fanciulla: con ambo le mani le toccò la testa. Scottava.

—Che hai, che hai, cuore mio?

Tina ansava ancora nella convulsione del lungo sogno, e allora la mamma cercò la candela per accenderla.

Finalmente vi riuscì.

La faccia di Tina era scomposta: un pallore cadaverico le si era diffuso per tutto il volto, aveva i capelli bagnati, le labbra scure, gli occhi vitrei, che pareva non dovessero chiudersi più.

—Che cosa hai? dimmelo: vuoi bere?

Ma la testa febbrile si riabbassò pesantemente sul cuscino.

LA QUINTA GIORNATA

Betta era corsa piangendo nella camera di Tina.

—La mamma non mi fa più il vestito.

—Vorrà tenerlo per sè,—disse la signora Adelaide, e il suo viso parve duro alla fanciulla, nel lungo sforzo che la povera donna faceva per rattenere i singhiozzi.

—Dille che venga qui,—mormorò Tina.

E mentre Betta se ne andava consolata, Tina richiuse gli occhi.

La mamma, seduta presso il capezzale, stette a guardarla in preda ad un profondo sbigottimento davanti a quella nuova trasformazione. La fanciulla diventava un'altra; il naso le si era affilato e un'ombra le aveva scavato le gote, mutando tutta la sua fisonomia; soltanto la fronte sotto quell'arruffio dei capelli rimaneva ancora pura.

Poi aprì gli occhi e disse quasi in sogno:

—Come sei lontana!

—Aspetta, aspetta,—rispose l'altra senza capire.

Tina tese la mano lucida, scheletrita.

—Che cosa vuoi?

—Andrai dalla signora Cesarina.

—A fare che?

Un bagliore brillò nelle pupille dell'ammalata.

—Mi ha promesso un regalo.

—Che cosa?

Tina rispose dopo una pausa:

—Ho freddo.

Allora la mamma, girando intorno al letto, le addoppiò addosso la coperta scoprendo mezzo il lenzuolo.

—Stai bene? Vuoi del latte?

—Chiama la signora Veronica.

Tina rimase sola.

In quel momento il sole dal comò veniva radiosamente verso il letto saltando sulla tavola, che la mamma e la signora Veronica avevano trasportata dalla cucina per poter mangiare non lontano dalla ammalata.

Ella pensava:

—Che cosa è la morte?

E non sapeva immaginarsela che quale un sonno più lungo, forse più freddo ma insensibile, come assopendosi per qualche ora ella non lo sentiva più salire così, adagio, dai piedi. Aveva pensato pure a che cosa le metterebbero indosso prima di adagiarla nella cassa, poichè aveva regalato a Betta l'unico abito veramente suo ma le restavano ancora due camice nuove e una sottana nel comò. Poi chi la vedrebbe? Chi lo saprebbe?

Pareva che una nebbia le fosse entrata nel cervello, stentava a ricordarsi: nessun rimpianto, nessuna immagine le saliva più dalla coscienza. Forse così muoiono i fiori sotto l'umidore delle rugiade, dopo che il sole li essiccò nella lunga giornata, Persino quella ultima, acuta voglia di una bianca corona virginale sulla bara non rimaneva più che come la estrema luce del suo olocausto.

L'aria della camera si era riscaldata, il sole copriva adesso la piccola tavola di una fiamma, salendo per il letto verso i piedi di Tina; ella lo guardava di sbieco senza muovere il capo. Era bello: ma le piante morte o morenti nei campi se ne accorgono forse?

Gli uccelli feriti invece si nascondono nell'intimità più scura della fratta per morire.

Betta entrò per la prima correndo al letto:

—Diglielo, diglielo,—sussurrò rapidamente.

Ma la signora Veronica, che teneva ripiegata la sottana sul braccio sinistro, con una grande forbice nella mano destra, non pareva alla faccia niente affatto contrariata. Prima di avvicinarsi al letto si fermò alla tavola per esaminare se vi fosse qualche macchia fresca.

Bettina chiamò:

—Vieni qui, mamma.

—Contentatela,—mormorò fiocamente l'ammalata.

Allora l'altra la scrutò acutamente senza che sul volto le apparisse alcuna emozione.

—Come volete: debbo tagliare qui sulla tavola davanti a voi?

La piccina battè le mani.

—Sarò bella anch'io una volta!

Tina ebbe ancora un sorriso negli occhi, ma la signora Veronica si volse alla signora Adelaide:

—Avete un cencio per sfregare la tavola? Meglio forse stendervi sopra qualche cosa di bianco; aspettate, vado io di là a prendere una tovaglia.

Andò e tornò subito.

—Sedete qui con me, signora Adelaide,—disse quasi imperiosamente, perchè non tornasse al letto.

Parlava con voce calma come al solito. Il sole le batteva sulla faccia grassa e lucida, accendendovi qua e là come dei riverberi; allora guardò alla finestra coll'idea subitanea di socchiuderla, ma capì che l'ammalata non ne avrebbe forse avuto piacere, e rigirandosi venne a voltargli contro la schiena.

Sulla tavola aveva disteso un mezzo telo di lenzuolo.

La signora Adelaide aveva dovuto sedersi a un angolo fuori del sole vicino a lei. Betta sempre con quel fazzolettone, che le fasciava la faccia gonfia e giallastra, stava in piedi all'altro capo, dentro l'ombra grande della mamma; le sue mani tremavano d'emozione, mentre cogli occhi spalancati seguiva lo spiegarsi della sottana così larga al disotto che cadeva dalla tavola e nella purezza del suo colore cilestrino pareva una qualche cosa straordinaria in quella camera.

La signora Veronica spianò colle mani l'ultime pieghe.

—A fare una cosetta per bene,—disse lentamente,—ci vorrebbe un modello. Il vestone, che Betta ha indosso, lo tagliai ad occhio e croce, ma questo, che dovrebbe servire per andare fuori qualche volta la domenica, bisognerebbe disegnarlo meglio, non vi pare, signora Adelaide? E poi, ecco perchè non avrei voluto sciupare così la sottana: al vestone occorre mettere qualche cosa di bianco al di sopra e al di sotto, una bavarina, una blonda increspata o a cannoncini, mi capite, non è vero? Ogni stoffa ha le proprie esigenze: lo sapete meglio di me.

—È vero,—mormorò l'altra—quasi quelle parole evocassero in lei ricordi lontani.

—Come vogliamo dunque fare?

—Prima scucire la cintura e i teli.

—Questo si sa.

La signora Veronica aspettava sempre colla forbice nella mano e una certa pensierosità sulla fronte.

—Levati il vestone, Betta; lo proveremo così sopra la sottana prima di sciupare qualche cosa.

La fanciulla con ambo le mani dietro la schiena si mise subito a sbottonarlo senza trarsi il fazzoletto; sulla bocca le tremava un riso silenzioso, che non si vedeva, perchè in quell'atteggiamento doveva tenere la testa bassa, ma non fu l'opera che di pochi secondi: improvvisamente la testa vi sparve dentro, tutto il suo corpo si agitò, e il vestone cadde sulla tavola.

—Bada,—gridò la mamma,—che non sia sudicio sotto il collo!—Ma lo scuoteva già colla mano in alto, fuori della tavola.

Betta era rimasta con quel fazzoletto nero e una camicetta scura, tutta rattoppata, attraverso la quale traspariva pietosamente la sua figura di scheletro. Quasi per una subita sensazione di freddo si scostò per entrare nel sole.

—Dammi una sedia, ma rimettiti al tuo posto; non ti voglio vicina, nè quando taglio nè quando cucio.

Pareva tranquillissima. Così seduta non poteva vedere Tina raggomitolata sotto la coperta, giacchè Betta silenziosa all'altro capo della tavola le toglieva mezza la vista del letto.

Ma col lembo inferiore della sottana fra le mani la signora Veronica non si decideva ancora.

—Guardate,—disse alla signora Adelaide:—è un vero peccato che le sottane usino adesso così sghembate: disfacendole, non se ne cava nulla…—E s'interruppe davanti al viso immobile dell'altra. Qualche cosa le passò in fondo agli occhi, come un tremito di pietà; quindi per toglierla da quella dolorosa atonia raddoppiò la chiacchiera.

—Quando siete venuta a chiamarmi ero risalita allora allora: giù la signora Giovanna aveva bisogno di vedermi. In fondo sono buona gente in quella casa; mi hanno parlato anche di voi, ma essi pure si trovano in grossi guai.

Così dicendo si decise finalmente a piantare la punta delle forbici nell'orlo della sottana per staccarne la sottile fodera inamidata.

—Figuratevi che il marito passa un cattivo quarto d'ora; pare che alla conceria si tratti quasi di mandarlo via; è una famiglia che potrebbe benissimo resistere anche a questa disgrazia, ma capirete che si va sossopra per molto meno. Invece la Gemma è sempre alla finestra per vedere il figlio della Nena; mi sono affacciata anch'io un momento, e ho visto che aveva messo sul davanzale un magnifico stivalino di pelle nera. Si facevano dei segni; allora Gemma si è ritirata, ma la mamma, credendo di aver indovinato tutto, le ha dato uno schiaffo. E tu, Betta, vuoi stare ferma invece di tirare per la sottana a rischio di farmi forare le dita? Male, signora Adelaide, battere così le figlie, quando sono grandi, davanti a terze persone: naturalmente soffrono troppo e fanno peggio.

L'altra sospirò.

Ma la signora Veronica, che voleva ad ogni costo attirarla nel dialogo, proseguì:

—Io lo so, vedete; quando la signora Giovanna esce di casa per restare fuori qualche tempo, Gemma fa un segno dalla finestra e lui sta attento, attraversa la strada in modo da farsi notare il meno possibile e viene su per le scale. Le altre due sorelle aiutano. Vedrete che cosa accadrà più avanti. La Nena ha detto già colla mercantessa da carbone nella bottega del Tombolino che suo figlio sposerà la Gemma perchè la cosa oramai è fatta.

—Fatta,—ripetè la signora Adelaide, presa poco a poco nell'onda lene di quelle parole.

—Mio Dio! ecco, non si vede molto ancora, ho guardato bene la Gemma, ma quanto al resto deve essere vero. Temo invece che la cosa non debba riuscire dal canto del padre. Quello è un osso duro; capacissimo di cacciarla via di casa senza un centesimo, e allora l'altro, lo conosco, non la sposa di sicuro. È svelto e niente affatto innamorato: lei, invece, la Gemma, ha la tarantola. A proposito: la signora Giovanna mi ha parlato anche di don Pietro.

—Sopra di che?

—Niente, che ha aiutato anche quella povera Maddalena, la lavandaia vedova con quel branco di figli, che si è rotta la gamba destra per le scale di casa. Egli verrà dentro oggi.

—Sì,—ripetè la signora Adelaide, e volse il capo; ma siccome Betta si era ancora spostata potè vedere Tina.

—Non vi muovete: adesso tenetemi questa falda: così non vien fatto nulla.

L'altra ubbidì, mentre la signora Veronica cogli occhi fissi sulla cucitura seguitava:

—Sapete dove bisognerebbe andare? Dalla signora Cesarina,—seguitò abbassando la voce.

—Tina mi ha detto che aspetta un regalo.

—Quale?

—Non si è spiegata.

—Quando si sveglierà, glielo dimanderemo. Non darà molto, perchè quella donna la conosco, ma nel vostro caso qualche cosa si può cavarne. Certa gente è soprattutto così: se vi debbono qualche cosa non vi danno nulla, invece se non si credono obbligati a niente, sono capaci di largheggiare. Sempre l'amor proprio! Che cosa avete mangiato stamattina?

—Ho bagnato mezza pagnottella nel caffè col latte.

—Io ho delle budelline di agnello e delle verze per fare un po' di riso: ne prenderete una tazza con me.

—Ma lei, che da tre giorni non vuole prendere nulla!

—Bisogna aspettare.

—Credete che si rimetterà?

—Colla gioventù non si sa mai: non è finita che quando è finita davvero. Se don Pietro non è ancora tornato, egli che ha un occhio da medico, vuol dire che nemmeno lui teme una disgrazia improvvisa.

Questa assicurazione parve quietarle tutte e due. Adesso parlavano a voce bassa come se si facessero delle confidenze; il discorso era tornato sulla Gemma, che si stringeva troppo alla vita per far sporgere il seno: anche la signora Adelaide sapeva della tresca, anzi risalendo le scale una volta li aveva sorpresi a baciarsi.

Se ne ricordò.

Betta, indifferente al discorso delle due donne, si era rivolta al letto: il sole arrivava sui capelli di Tina arruffati nel mezzo del cuscino, ma il viso dell'ammalata, più basso, rimaneva nell'ombra.

La fanciulla si accostò in punta di piedi.

Tina aveva la bocca aperta e gli occhi sbarrati, opachi come un vetro. Betta fece quel solito gesto, quando la chiamava per dirle qualche cosa, ma Tina non si mosse: la sua fronte era quasi verdognola, e il sole fra i capelli pareva accenderle delle fiammoline.

Un freddo sorprese Betta, che non osò chiamare: Tina! Istintivamente volse il capo alle due donne, ma vedendole chine sulla falda della sottana, tornò ancora a guardare Tina. Dormiva? Che cosa era? Betta ripetè il medesimo gesto, allungandole la mano verso gli occhi, e in tale atteggiamento scherzoso, con quel fazzolettone scuro che le fasciava il visetto giallastro, e la camiciuola dalla quale la deformità del suo corpicino appariva stranamente, si sentì anch'essa così ridicola che ne sorrise per la prima.

Ma evidentemente Tina non se ne accorgeva.

Allora Betta si accostò, evitando di guardarla negli occhi, che cominciavano a farle paura, poi colla mano destra le toccò la mano sporgente dal letto. Era fredda.

Un inesprimibile terrore la fece tremare tutta; quindi abbassando la testa, in punta di piedi, senza che le due donne se ne fossero accorte, tornò al tavolo. Anche lei era diventata pallidissima: girò intorno allo spigolo per avvicinarsi alla mamma, ma, involontariamente lo sguardo le tornava sempre a Tina.

Le due donne avevano smesso di parlare, curve sulla gonna cilestrina, già aperta sopra un fianco.

—Voltate il telo: così, bene!

Anche Betta guardava: adagio, silenziosamente, tirò la mamma per la sottana; questa si volse, e vedendo la fanciulla così sconvolta frenò il gesto d'impazienza, che già le sfuggiva.

—Che cosa è?—chiese cogli occhi.

Betta guardò il letto.

—Mio Dio!—gridò la signora Adelaide, che sorprese quell'occhiata; e levandosi nervosamente, si precipitò verso la morta.

—Tina, mio Dio, Tina!

Betta scoppiò in pianto.

Colla faccia su quella mano gelata la mamma non piangeva, non singhiozzava; si udiva solamente l'anelito faticoso del suo respiro simile a quello di un ferito. Le campane di una chiesa vicina suonarono mezzogiorno nell'aria vibrante del sole; Betta, appoggiata dietro la sedia della mamma, aveva nascosta la testa. Allora la signora Veronica si alzò per esaminare la morta: nessun dubbio, Tina era già spirata silenziosamente, e colla bocca ancora aperta nello sforzo di un grido, che non aveva potuto uscirne, guardava. A certuni pare che i morti abbiano ancora uno sguardo; la signora Veronica ebbe questa impressione, vedendo dietro l'azzurro delle pupille la stessa ombra mesta, come quando la fanciulla colla fronte sopra una mano s'incantava per ore intere.

La signora Veronica si commosse, guardò la mamma inginocchiata.

—Eh!—mormorò con un sospiro; poi risolutamente girò intorno al letto dall'altro lato, e vi salì per chiudere quegli occhi.

La signora Adelaide alzò la testa al fruscio del pagliericcio senza parlare.

—Aspettate,—disse l'altra prendendo fra le mani ambo i ginocchi della morta; li rivoltò, quindi con uno sforzo improvviso, violento, li distese. S'udì uno scricchiolio.

—È fatta: dopo, sarebbe stato impossibile allungare le gambe stecchite dal freddo; lo sapete pure.

Ma sembrava che avesse faticato, ansava; quando fu discesa dal letto, rimase alquanto immobile a guardarsi. Betta piangeva sempre.

—Va di là, tu,—le disse quasi severamente; poi accostandosi alla signora Adelaide le prese una mano.

—Venite con me: faremo tutto dopo.

L'altra si lasciò attirare.

—Venite, venite.

La trascinò così sino alla porta, le si mise dietro per impedirle di vedere un'altra volta la morta voltandosi.

Tina rimase sotto quella coperta cogli occhi chiusi nel sole, che adesso le avvolgeva in una fiamma d'oro la faccia bianca; ma quell'ombra dentro la bocca aperta era diventata quasi nera.

DOPO

—Buona notte, fatevi coraggio,—ripetè ancora la signora Giovanna, mentre le tre figlie dietro di lei guardavano.

—Grazie.

—Volete che vi facciamo lume per le scale?

—No, no.

Poco dopo la porta si richiuse e la signora Adelaide rimase al buio.

Si sentiva la testa pesante forse per quello stufato di agnello, che le avevano fatto mangiare quasi a forza, perchè aveva dovuto mettersi a tavola colla famiglia della signora Giovanna, la quale, tutta compresa della propria buona azione, voleva assolutamente essere obbedita. Quel pomeriggio era stato lungo. La signora Giovanna, salita solamente colla Gemma a vedere la morta prima che la mettessero nella cassa, aveva poi forzato la mamma a discendere con lei per sottrarla almeno allo strazio dell'ultimo distacco.

Adesso tutto era finito.

Il trasporto di Tina aveva avuto luogo verso le sei abbastanza decentemente; i casigliani si erano prestati ad una colletta, don Pietro aveva aggiunto il resto, ma nel viso melanconico pareva anche più severo. La signora Adelaide, annientata da tutta quella novità, non sentiva più che un gran freddo nell'ossa e qualche cosa come un velo intorno alla faccia, che le annebbiava la vista. Solamente le era rimasto un tremito nelle mani dopo quello sforzo di aiutare la signora Veronica a mettere Tina nella cassa, mentre il sole riempiva tutta la stanza della propria fiamma.

Adesso invece le scale erano buie.

Ella saliva adagio, aiutandosi colla mano nel muro quando un piede mal fermo le si spostava sui mattoni slabbrati degli scalini e la faceva traballare nella paura improvvisa di cadere.

—Non ci deve essere in casa nemmeno un mozzicone di candela,—mormorò.

Era la prima idea; pel resto sapeva che avrebbe trovato la casa in ordine; che cosa poteva infatti esservi sossopra? Ma la signora Veronica aveva spazzato persino il pavimento e spolverati i mobili per quella sua smania della pulizia e per rispetto della morta.

—Vedete, io tengo tutto pulito in casa mia,—aveva ripetuto parecchie volte:—questa volta però è un'altra cosa. I morti non ci appartengono più; la gente, che viene a vederli, è come se entrasse in chiesa, ci vuole molto rispetto, molto rispetto.

L'altra non aveva capito bene.

Invece la morte le accresceva senza misura quello sbigottimento di abbandono da tant'anni così profondo nella sua vita. Colle mani ciondoloni, le gambe che le mancavano sotto, stava a guardare ritta, o si muoveva sempre troppo tardi per aiutare in qualche cosa. E il suo gesto era così stanco che la signora Veronica le ripeteva:

—Lasciate, lasciate.

Era vero, se ne accorgeva anch'essa. Aveva pure sentito con nuova amarezza di non soffrire come se lo era immaginato; i suoi occhi non si gonfiavano di quelle lagrime che sembrano forarli, il suo cuore non aveva urlato nello spasimo della disperazione, che non vuole essere consolata e si consuma nella propria impotenza.

Quindi cedendo alla violenza della signora Giovanna, che nel trarla di lì tornava a spiegarne il motivo con tutti, era sembrata quasi una delle tante madri incapaci persino di fingere il dolore della propria maternità perita forse nella miseria da troppo tempo. La signora Giovanna stessa ne aveva ricevuta una cattiva impressione, mentre le figlie sorridevano talvolta con quel sorriso involontario della gioventù dinanzi a coloro, che non sono più niente nella vita; ed è quasi la stessa ironia, come all'apparire di un cane randagio, spaurito, in una qualche strada popolosa: la gente gli urla subito dietro, i monelli l'inseguono, finchè un cane più forte gli si avventa, e allora tutti ridono. Perchè? È cattiveria? È così. Ma davanti a certe tragedie, coloro che non sono affatto disposti ad entrarvi, vogliono vederne il dolore, altrimenti si fanno più duri.

Ella taceva. Seduta colla signora Giovanna sul canapè della stanza coniugale, aveva udito benissimo il tramestio dei becchini nelle scale troppo strette per la cassa, e tutte le porte si aprivano sui pianerottoli, la gente discendeva; poi il tonfo cupo dello sportello, quando la cassa sospinta da cinque o sei mani scivolò dentro il cassettone della carrozza nera, aveva per un istante coperto il vocìo della strada, e poco dopo il cavallo si era allontanato battendo sonoramente i ferri sulle lastre.

Pallida, si era alzata per andare alla finestra: ma la signora Giovanna lo aveva impedito.

—No, no, non istà bene: i vicini ne riderebbero.

Nelle scale il silenzio era profondo. Sempre colla mano al muro giunse sull'ultimo pianerottolo, e si fermò tastando guardingamente l'uscio della signora Veronica; ma era chiuso.

Intese parlare al di dietro, poi le voci tacquero. Improvvisamente si ricordò quanto quella donna egoista, così abile a vivere della propria miseria, aveva fatto per lei in quel giorno occupandosi di tutto, della colletta, della cassa, uscendo per andare da don Pietro e dalla signora Cesarina, che aveva mandato dieci lire e una corona bianca di narcisi. Era questo il regalo chiesto da Tina per la propria bara. Ma capì che adesso era finita ogni intimità, d'ora innanzi la signora Veronica non avrebbe più alcun motivo d'interessarsi a lei come pel passato quando Tina poteva da un giorno all'altro fare fortuna ripagandole il beneficio. Era così, non doveva essere altrimenti: finchè si ha qualche cosa nella vita, gli altri aiutano, poi si allontanano avendo bisogno, specialmente i poveri, di pensare prima a se stessi.

Lentamente sospinse il proprio uscio.

Per la finestra aperta una luce pallida rischiarava la stanza. La tavola stava nella cucina davanti al focolare, presso quel sofà sgangherato: al di fuori si vedeva un lembo di cielo pieno di stelle in un sereno scuro, e qualche riverbero dei fanali a gas saliva pei muri languidamente. Nel silenzio un passo d'uomo echeggiò dal vicolo allontanandosi: doveva essere poco più che un'ora di notte. Girò per la stanza tastando qualche cosa, quasi a riconoscere gli oggetti, ma una paura e un'ombra le crescevano dentro. Che cosa fare? Sapeva di non avere candela e che non le sarebbe possibile discendere per battere all'uscio di qualcuno: oramai tutti avevano fatto per lei più di quanto dovevano, e domani, sempre, a ogni ritorno, sarebbe così, la stessa sensazione di freddo e di abbandono. Una voce, quasi un grido le salì alla gola, ma lo soffocò con ambo le mani, come tremando che potesse prolungarsi indefinitamente in quel silenzio.

Dov'era Tina?

Nel cimitero lassù, non sapeva altro. Certamente avevano calata la cassa in una fossa comune, fra cadaveri ignoti l'uno all'altro, e se n'erano andati senza nemmeno voltarsi per stendere sulla terra smossa quella corona di narcisi bianchi. Eppure Tina non avrebbe chiesto di più: tutta la sua primavera non aveva avuto altri fiori.

Infatti la fanciulla non amava il lusso e non sentiva quei desiderii voraci, pei quali ella si ricordava di aver sofferto sino in ultimo. Tina ignorava tutto: in altra condizione sarebbe forse vissuta a lungo felice, senza accorgersi che gli uomini esistessero, e invece era morta a sedici anni per colpa loro. Improvvisamente un rancore simile ad una fiamma le montò dall'anima contro quella illusione di fare fortuna essendo più buone o avendo sofferto più delle altre; il sangue le si accese, poi un pensiero anche più triste lo spense tosto: perchè lagnarsi? Non era inutile?

Se in quel momento avesse potuto gridare all'uomo, che pel primo gliela aveva presa: «Mia figlia è morta, sei tu, sei tu che l'hai uccisa!» non le avrebbe egli, già immemore di quel mattino lontano, risposto con un sorriso? Non erano così tutti gli uomini? Non pensano tutti che le donne, rassegnandosi a certe cose, esercitano un mestiere, il quale ha naturalmente i rischi di ogni altro?

Talvolta anche se ne muore, ma la colpa non è di nessuno.

—Ecco tutto!—disse con un amaro sorriso.

La gola le bruciava: quindi si alzò dal canapè per cercare nella madia quel resto di latte, che Tina non aveva voluto bere: non lo trovò.

Anche il secchio era vuoto.

Una sete l'ardeva; pur sapendo che non vi potevano essere, cercò dappertutto dei fiammiferi e un mozzicone di candela per sottrarsi al buio, nel quale si sentiva troppo sola. Uno per uno i ricordi della vita si erano allontanati nell'ombra della notte, poi la debolezza tornava a fiaccarle le gambe, mettendole nelle reni uno spasimo di arrembatura. Tina era lassù.

Anche nei giorni buoni, quando capiterebbe ancora di cuocere qualche cosa, ella non potrebbe più voltarsi per chiamare sorridendo la fanciulla a mangiare nel medesimo piatto, adesso che erano tutte due egualmente sole. Eppure sotto l'onda di quella tristezza non piangeva. La sua testa smarrita nella nuova solitudine tremava timidamente senza collera, senza nemmeno quel tragico abbacinamento dei grandi dolori, che a poco a poco si obliano nella propria contemplazione, quasi il mondo cessi loro d'intorno. Ella invece ne soffriva ritraendosi dinanzi alle immutabili necessità, che si sarebbero rinnovate domani. L'egoismo della sua natura sofferente da tanti anni si rannicchiava, come d'inverno certi vecchi poveri sotto il vento di tramontana si stringono nei cenci alle porte delle chiese, sentendo l'ultimo calore del sangue risalire verso il cuore; e allora non hanno più la forza di chiedere, mentre qualche cosa si mette a singhiozzare nel fondo delle loro anime. Anche Tina era stata così: la sua giovinezza muta, la sua obbedienza passiva nascondevano una di quelle tragedie incomunicabili, davanti alle quali i cuori più sensibili rimangono sordi.

La fanciulla infatti non aveva mai voluto raccontare che cosa avesse sofferto la prima volta in quella camera della signora Cesarina.

Ma questo pensiero la ricondusse alla necessità di entrare nell'altra stanza.

Che cosa faceva nella cucina? Per guadagnare tempo cercò di passare in rivista le persone, alle quali avrebbe potuto presentarsi l'indomani per chiedere aiuto; e la prima fu la signora Cesarina.

—No, no,—proruppe a bassa voce:—mi farebbe dire senza dubbio di non essere in casa.

Quella donna non aveva cuore, le si vedeva in faccia.

Ma era già all'uscio, rabbrividendo per tutti i nervi come dinanzi a qualche terribile cosa, che dovesse accaderle. Si ricordò che Tina era rimasta per sempre colla bocca spalancata nello sforzo dell'ultimo grido, perchè la signora Veronica chiudendole gli occhi si era dimenticata di stringerle sotto il mento il solito fazzoletto. E al suo cuore di madre questa sensazione si era rinnovata poi dolorosamente, quando dovette accorgersi che le mascelle irrigidite dal freddo della morte non si sarebbero più chiuse.

Una paura inesprimibile le aveva agghiacciato l'anima. La fanciulla, così sottomessa a tutte le violazioni della propria vita, aveva forse tentato di gridare nell'ultimo momento, cogli occhi già pieni di un'ombra immobile.

Ella stessa si sentiva riprendere dallo spavento della tenebra. Quell'altra finestra sarebbe aperta? Non sapeva spiegarsene il perchè, ma credeva di sì per un senso di misterioso rispetto alla morta. Aspettò coll'orecchio teso nel silenzio ascoltando i battiti del proprio cuore.

Un sudore freddo le bagnava la fronte.

Entrò.

La finestra era aperta, nella camera illuminata dal chiarore della notte niente era mutato: rapidamente si diresse al letto dal suo solito canto e cominciò a spogliarsi colle mani tremanti.

Raggomitolata sotto le coperte, come se avesse freddo davvero, si teneva con ambo le mani un lembo del lenzuolo sulla faccia, ma il cuore invece di calmarsi le batteva sempre più precipitosamente. Allora le lagrime cominciarono a caderle per le guance, e un singhiozzo lungo la scosse per tutti i nervi. Qualche cosa le si scioglieva dentro, liberando finalmente la sua anima dal peso ineffabile del silenzio. Ah! come era sola adesso che Tina non le stava più accanto riscaldandola col suo corpo giovane, che d'inverno le si stringeva sempre più presso, talvolta abbracciandola anche nel sogno! Il letto era sempre così. La signora Veronica invece di rifarlo si era contentata di spianarvi sopra quei lenzuoli saturi ancora di tutto il sudore triste dell'ammalata. Ella ne raccapricciò, malgrado l'abitudine oramai vecchia ai sudiciumi della miseria, e seguitò a piangere in un dolore quasi dolce. Tutta la sua tenerezza si effondeva in quel pianto silenzioso, mormorando appena il nome della figlia: Tina, Tina! Non avrebbe voluto altro. Non pensava più all'indomani, non si ricordava più nulla. Invece sentiva sul fianco la sua buca scavata nel pagliericcio, più grande forse di quella lassù nel cimitero. Ella non voleva che Tina, la sola creatura, dalla quale fosse stata amata per sedici anni, anche nei giorni peggiori, quando ella stessa si accorgeva di diventare bisbetica e di trattarla male. Era lei, la mamma, che faceva così, Tina no: la guardava negli occhi abbassando la testa, e poco dopo veniva a tirarla per la sottana con un sorriso. Eppure la povera fanciulla avrebbe avuto il diritto di essere cattiva in quella vita di miseria, senza mai una consolazione. Per quanto adesso ella si credesse infelice, qualche bel giorno lo aveva avuto; ma Tina mai, nè da bimba nè da fanciulla, nemmeno quelle gioie della infanzia che trova dappertutto un sorriso, nemmeno quelle speranze della giovinezza, nelle quali ogni donna sale come dentro un incanto. Ed era morta per darle da mangiare, non c'era più.

—Tina, Tina!—ripeteva colle mani tese nell'ombra della notte primaverile.

Poi si volse disperatamente ed afferrò il cuscino, sul quale era spirata; lo strinse, lo baciò in una smania, che la fece cadere dentro la buca stessa della morta. Diè un balzo d'orrore, e si trovò dall'altro lato, inginocchiata per terra, col cuscino fra le braccia.

—Sono stata io! Tina, Tina, perdonami di averti messa al mondo, perdonami, perdonami!

E questo grido le saliva finalmente dalle labbra con tutta la sua anima di madre, che nello spasimo dell'amore si pentiva di avere dato una creatura al tragico mistero della vita.

FINE.